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ARTEMISIA GENTILESCHI: 
UNA STORIA DI VIOLENZA DAL SEICENTO AD OGGI

Articolo a cura di Giuseppe Bongiovanni, Martina Chiappa

Revisione a cura di Federico Grossi, Francesco Neri

 Introduzione

Ormai cinquanta anni fa, lo psicologo americano William Ryan coniava il concetto di colpevolizzazione della vittima, presentato per la prima volta all’interno del suo libro Blaming the victim. L’idea, nata come critica alle teorie di Daniel Moynihan sulla povertà intergenerazionale, è stata poi ampiamente ripresa all’interno del dibattito legale per individuare la circostanza in cui le vittime di violenza sessuale sono accusate di aver a vario titolo cagionato l’offesa subita.

Se il fenomeno della vittimizzazione secondaria è stato teorizzato solo di recente, esso risale in realtà a tempi ben più lontani. Questo contributo di A&LMOST Weekly desidera raccontarvi due storie, che si intrecciano nel corso dei secoli: la storia di Artemisia Gentileschi, celebre pittrice seicentesca, la cui sventurata vicenda giudiziaria ne ha messo spesso in ombra le eccezionali capacità artistiche, e la storia di molte altre donne vittime di violenza sessuale, che ancora oggi passano, metaforicamente, dal banco della parte offesa a quello dell’imputato.

Ancora 1

1. Vita di Artemisia: tra violenza e fama – A cura di Giuseppe Bongiovanni 

La maggiore dei quattro figli di Orazio Gentileschi e Prudenzia Montoni, Artemisia Gentileschi, nacque nella Roma del 1593.

La fine del Cinquecento fu contraddistinta nel campo artistico dall’opera di Guido Reni, dei fratelli Carracci, ma soprattutto da quella di Caravaggio, che avrebbe influenzato notevolmente la pittura di Artemisia. Rimasta orfana di madre all’età di soli dodici anni, la giovane si appassionò molto all’attività del padre, pittore discretamente affermato nella Roma del periodo, che le insegnò i fondamenti dell’arte iconografica.

Egli, stupito dal talento dimostrato dalla figlia in tenera età, le lasciò una crescente libertà di espressione, fino al completamento della sua prima opera, Susanna e i vecchioni. Tale opera costituisce in parte un’amara profezia dell’episodio che Avrebbe sconvolto la vita di Artemisia. La storia di Susanna, raccontata nell’Antico Testamento, è quella di una donna giovane e graziosa, concupita da due vecchi che la osservano mentre, nuda, si bagna. I due uomini minacciano di accusarla di averla scoperta assieme ad un giovane amante, accusa che non le sarebbe stata mossa solo a condizione che si fosse loro concessa.

Susanna oppone il proprio rifiuto e, portata dinnanzi al tribunale, verrà condannata alla lapidazione, per poi essere salvata dal mistico intervento del profeta Daniele. Artemisia, dal canto suo, ci restituisce in quest’opera la complicità malvagia e gli sguardi voluttuosi dei due vecchi, non sconosciuti ad una giovane pittrice del Seicento in un modo dominato da uomini più grandi di lei.

Giustappunto, nel 1611 Orazio Gentileschi affidò la figlia diciottenne all’amico e collega Agostino Tassi, assieme al quale stava decorando il Casino delle Muse di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, affinché le insegnasse l’utilizzo della prospettiva. Il 6 maggio, stando alla testimonianza di Artemisia, il Tassi, con l’aiuto della locataria dei Gentileschi, violentò la propria allieva. Queste le parole con cui la pittrice avrebbe raccontato la violenza durante il processo:

“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò […]”. 

In seguito alla violenza il Tassi promise ad Artemisia che l’avrebbe presa in sposa. L’utilizzo della prassi del matrimonio riparatore sarebbe infatti rimasta, ancora per secoli, l’unica via percorribile per riparare l’onore leso: non tanto quello della giovane, quanto quello della famiglia. Tuttavia, scoperto diversi mesi dopo che il collega era già sposato, il padre di Artemisia rivolse una supplica a Papa Paolo V – nato Camillo Borghese – affinché instaurasse un processo contro Agostino Tassi:

“Et perché, Beatissimo Padre, questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione e danno del povero oratore [n.d.r. “querelante”] et massime sotto fede di amicitia che del tutto si rende assassinamento […] genuflesso alli sua Santi piedi la supplica in visceribus Christi a provedere a così brutto escesso con li debiti di giustizia contro a chi spetta”.

Nella Roma del Seicento, che una donna portasse dinanzi a un tribunale un uomo per violenza sessuale non era certo cosa comune. Nel giro di breve tempo il processo contro il Tassi si trasformò in un’inquisizione contro la Gentileschi, costretta da una macchina processuale ignobile a provare la veridicità delle proprie accuse. Artemisia venne addirittura sottoposta alla tortura “della sibilla”, finalizzata appunto a far emergere la verità “più velocemente”. Il supplizio, particolarmente significativo per una pittrice, consisteva nello stringere i pollici con delle corde sempre più strette, fino ad arrivare al possibile distacco delle falangi. Di fronte ai fasci che le stringevano le dita, Artemisia rivolse parole atroci al Tassi: “Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!”.

Il processo, che durò sette mesi e fu costellato di interrogatori, confronti diretti e persino false testimonianze, si concluse il 27 novembre 1612 con la condanna di Agostino Tassi per la violenza usata ad Artemisia, la corruzione di alcuni testimoni e la diffamazione di Orazio Gentileschi. Posto dinanzi alla sceltatra i lavori forzati e l’esilio da Roma, il pittore scelse l’esilio, che di fatto non scontò mai, protetto dai potenti committenti romani.

Fu invece Artemisia a dover abbandonare la città eterna, ormai umiliata e con poche speranze di ricevere a Roma committenze di rilievo. Dopo un matrimonio organizzato dal padre con il pittore Pierantonio Stiattesi, Artemisia si spostò a Firenze, dove trovò la sua rinascita. Nella Firenze di Cosimo II, Artemisia fece la conoscenza di Michelangelo il Giovane, strinse una forte amicizia con Galileo Galilei e venne accolta, prima donna nella storia, alla prestigiosa Accademia del Disegno. In questo periodo si inserisce l’opera forse più celebre di Artemisia, allo stesso tempo capolavoro del caravaggismo, denuncia per la violenza subita, e manifesto di solidarietà femminista ante litteram: Giuditta che decapita Oloferne.

ùL’episodio narrato in tale quadro è tratto dal Libro di Giuditta, anch’esso nell’Antico Testamento. Mentre la città giudea di Betulia è assediata da parte degli Assiri, Giuditta, eroina biblica, si reca all’interno dell’accampamento nemico assieme ad una sua ancella, uccidendo il generale Oloferne e contribuendo così alla liberazione della città. L’opera, cruda nel suo realismo caravaggesco, con i fiotti di sangue che zampillano dalle arterie recise a macchiare il giaciglio, non venne particolarmente apprezzata da Cosimo II, che la relegò in un angolo non visibile di Palazzo Pitti. Fu solo grazie all’intervento dell’amico scienziato Galileo Galilei che la pittrice riuscì ad ottenere il compenso pattuito.

Negli anni successivi Artemisia Gentileschi viaggiò per l’Italia e per l’Europa, tornando a Roma, soggiornando a Venezia, e aiutando persino il padre nel frattempo trasferitosi a Londra alla corte di Enrichetta Maria di Borbone. Anche il consorte, re Carlo I, divenne avido collezionista delle sue opere. Artemisia Gentileschi morì a Napoli nel 1656, forse durante l’epidemia di peste che colpì la città in quel periodo. Le sue opere sono oggi esposte in alcuni dei musei più importanti d’Italia, tra cui gli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Spada, Museo di Capodimonte, e del mondo, come il MoMa, il Prado e il Monastero dell’Escorial.

Ancora 2

2. La persistenza della vittimizzazione secondaria: un confronto tra Italia ed Europa –  A cura di Martina Chiappa

Nonostante il fenomeno della vittimizzazione secondaria possa pacificamente dirsi radicato nelle dinamiche processuali da tempo immemore, è da poco che si è giunti ad una dapprima sfumata e poi piena consapevolezza della sua esistenza, e ad una sua conseguente teorizzazione.

Il legislatore italiano ha infatti sempre mostrato una scarsa attenzione nei confronti della tematica del “victim blaming”; ciò ha recentemente condotto all’adozione, sull’onda di dibattiti internazionali e numerosi casi di cronaca le cui problematicità non potevano più rimanere inascoltate, di una normativa (la legge n. 69 del 2019, il c.d. “Codice Rosso”) che si pone l’obiettivo di difendere la vittima, la cui posizione spesso finisce con l’essere inspiegabilmente svilita e ridotta a quella di mero spettatore.

Contrariamente a quanto si possa pensare, nell’ordinamento giuridico italiano non è prestata un’immediata evidenza giuridica alla categoria dei soggetti deboli del processo penale.

Al di fuori di ogni rigida logica definitoria, la dottrina costituzionalista ha rintracciato la necessità di una tutela dei “deboli” nel disegno di una Carta egualitaria e solidarista, il cui sforzo di tutelare i soggetti svantaggiati trova la sua massima consacrazione nel principio di uguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 Cost. 

I soggetti deboli sarebbero indissolubilmente legati al precetto costituzionale, in quanto la loro debolezza ne comporta una “mancata uguaglianza” ed il conseguente ventaglio di diritti particolari che gli stessi devono vedersi riconosciuti. Ciononostante, il concreto svolgersi dei fatti ha spesso finito con lo spogliare la vittima del reato del ruolo primario che dovrebbe rivestire. Infatti, lo scenario processuale risulta dominato in modo incontrastato dal pubblico ministero, posto in contrapposizione dialettica all’accusato, e rispetto al quale la persona offesa, la parte civile ed il danneggiato si muovono come figure evanescenti e secondarie.

Identificata dalla dottrina come “soggetto titolare del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice” e leso dalla condotta antigiuridica tipica, la persona offesa è stata definita come un vero e proprio “ponte di collegamento” tra la dimensione normativa del diritto penale e la realtà processuale: la sua individuazione dipende proprio dall’efficace tutela del bene giuridico, che è il cuore della disposizione incriminatrice.

La persona offesa può dunque dirsi punto d’arrivo del sistema di protezione di tale bene giuridico e punto di partenza per l’affermazione in sede processuale delle garanzie che le spettano ex lege.

Nel Codice di Procedura Penale, l’art. 90 c. 1 prevede che “la persona offesa dal reato” possa “esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge”. Tali diritti e facoltà sono annoverati nei successivi articoli: ex multis, il diritto a chiedere al pubblico ministero di promuovere un incidente probatorio; il diritto di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione; il diritto a che siano notificati alcuni atti (informazione di garanzia, ordinanza di rigetto o inammissibilità alla richiesta di incidente probatorio, l’avviso di archiviazione della richiesta per infondatezza della notizia di reato e diversi altri ancora); il diritto a nominare un difensore. Con riferimento a tale ultima prerogativa, è opportuno ricordare che qualora la persona offesa opti per la nomina di un difensore, l’articolo 101 c.p.p. non prevede il passaggio in capo a quest’ultimo delle situazioni soggettive del difeso.

L’interpretazione letterale della norma, che vedrebbe il difensore come mero assistente tecnico, non trova conferma in altre disposizioni del codice di rito che gli conferiscono poteri di cui non godrebbe l’offeso sprovvisto di difesa. È stato autorevolmente osservato in dottrina come l’art. 101 c.p.p. operi come vera e propria estensione al difensore dei diritti e facoltà che la legge conferisce all’offeso, salvi gli atti che sono a questo personalmente riservati.

Tale previsione è solo uno degli esempi di capitis deminutio di cui soffre la vittima rispetto alle parti del procedimento, evidente anche in altri frangenti.

Nel diritto processuale contemporaneo la persona offesa non può operare in sostituzione del pubblico ministero, né può confondersi con esso (essendo gli interessi pubblici rappresentati dal PM estremamente diversi rispetto a quelli che la persona offesa, come privato, può far valere); essa può assistere ed aiutare l’autorità giudiziaria, offrendo “elementi di prova”, “in ogni stato e grado del procedimento […] con esclusione del giudizio di Cassazione”.

Appare paradossale che la vittima non possa godere appieno di quello che nella “Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del Codice di Procedura Penale” è stato definito come “il principio forse più emblematico del rito accusatorio”: il diritto alla prova, da esercitarsi nel contraddittorio davanti ad un giudice terzo ed imparziale, riconosciuto solamente alle parti in senso tecnico.

Non sorprende, quindi, che la figura della persona offesa veda la persistenza di notevoli ombre e problematicità. Si ritiene che queste possano essere uno strascico del vecchio modello inquisitorio, mai completamente abbandonato, che relegava i soggetti deboli a una funzione “satellite” e quasi completamente eclissata dalla figura dell’autorità giudiziaria.

Se il legislatore nazionale ha cercato di dare spazio al ruolo della persona offesa con fatica e in modo poco omogeneo, il legislatore europeo sembra invece aver colto con prontezza tale necessità: molte sono state le spinte innovatrici che hanno indotto a modifiche del nostro sistema, nel segno dell’inspessimento della cornice di diritti e garanzie da assegnare alla vittima.

In questo senso, il primo strumento normativo emanato a livello comunitario è stato la decisione quadro 2001/220/GAI, che ha anzitutto fornito una prima definizione di “vittima” (ossia la persona fisica che ha subito un pregiudizio, fisico, mentale, psichico o materiale a causa di atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro).

Tale decisione quadro demandava anzitutto agli Stati di munirsi di meccanismi interni al sistema giudiziario che accentuassero il ruolo effettivo ed appropriato delle vittime, assicurandone un trattamento debitamente rispettoso della loro dignità personale durante il procedimento.

La sopracitata decisione, però, non è mai stata attuata in Italia; piuttosto, essa è stata sostituita dalla Direttiva 2019/29/UE (attuata con il d.lgs. del 15 dicembre 2015, n. 212), che ha istituito norme minime su diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, integrando ed innovando il contenuto della decisione del 2001. Ai sensi della Direttiva, il reato è una violazione dei diritti personali della vittima, oltre che fatto nocivo per la società; per tale motivo, il contenuto della recepita Direttiva, in quanto provvedimento organico e compiuto, si pone come momento imprescindibile nello scolpire la fisionomia assunta dalla persona offesa nel processo, momento per nulla ridotto a mero suggerimento ai legislatori nazionali, ma capace di fornire sostanziali strumenti da mettere in pratica.

Tra i temi che stanno più a cuore al legislatore europeo vi è proprio la vittimizzazione secondaria (particolarmente grave soprattutto in relazione ad alcune categorie di vittime, come minori, vittime di violenza di genere e nelle relazioni strette), che esso si propone di contenere, arginare.

La vittima deve essere protetta non solo nel ma anche dal procedimento, evitando che il contesto processuale possa per lei tradursi in nuove sofferenze e frustrazioni.

Nonostante la Direttiva non fornisca una definizione del fenomeno, essa chiede che lo si possa prevenire, anche provvedendo alla formazione degli operatori suscettibili di entrare in contatto con le vittime, affinché siano sensibilizzati alle loro esigenze e posti in condizione di trattarle in modo appropriato.

Le norme sovranazionali, sebbene in sé carenti di valenza programmatica, assumono carattere precettivo nel nostro ordinamento. I singoli istituti in esse previsti devono infatti essere interpretati in modo compatto e globale, nell’ottica di una tutela costruita sulla vittima in sé considerata, al fine di evitare contraddittorietà tra i giudicati ed offrire uno spazio di garanzia effettiva.

Ancora 3

3. Vittimizzazione secondaria e "Codice Rosso" (legge 19 luglio 2019, n.69) - a cura di Martina Chiappa

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Se il preoccupato sguardo del legislatore europeo si era già da tempo posato sul “victim blaming”, il fenomeno pare persistente, secondo alcuni, dilagante, nella realtà nazionale.

Eppure, le vittime del reato continuano a suscitare un tormentato interesse in coloro che assistono alle dinamiche giuridicoprocessuali degli accadimenti di cui sono protagoniste, interesse che talora si traduce in un’ossessione verso macabri dettagli e verso il loro dolore.

In contesti di particolare vulnerabilità della vittima, le conseguenze della vittimizzazione secondaria - intese come conseguenze negative dal punto di vista relazionale ed emotivo derivanti dal contatto con il sistema della giustizia penale - sono devastanti.

E, come è legittimo aspettarsi, la sofferenza che ne deriva è ancor più amplificata se ci si trova al cospetto di soggetti particolarmente vulnerabili, come le vittime di violenze di genere o sessuali.

Di ciò prende atto la legge 19 luglio 2019, n. 69 (il “Codice Rosso”), in vigore dal 9 agosto dello stesso anno. La legge nasce dalla triste e, purtroppo, notoria, esperienza di vittime di violenza domestica, di maltrattamenti, violenze di genere, omicidio.

Con i suoi ventuno articoli di intervento sul Codice Penale e sul Codice di Procedura Penale, la novella ha introdotto nuove fattispecie di reato ed accorgimenti procedimentali tesi ad un’accelerazione dei tempi processuali, volta a garantire una più efficace tutela delle vittime vulnerabili.

In termini strettamente processuali, non pochi dubbi sono stati sollevati in merito all’attuabilità di una pronta reazione da parte dell’ordinamento (in particolare, del personale amministrativo, forze di polizia e giudici) in seguito alla ricezione della notizia di reato, che in talune ipotesi deve essere comunicata anche in forma orale; l’applicazione della legge ha dimostrato come ciò si sia tradotto in una moltiplicazione delle richieste da parte delle vittime di reato, che si sono dovute scontrare con una realtà mal organizzata e poco pronta alla loro gestione. Tra le numerose modifiche apportate, ha suscitato perplessità in dottrina l’articolo 321, comma 1-ter del codice di procedura: da molti definita come il perfetto esempio del vulnus che presenta la normativa nella soppressione della vittimizzazione secondaria, la norma demanda al pubblico ministero di escutere la vittima entro tre giorni dalla commissione del reato.

È facile notare come l’evidente sforzo del legislatore nel contrarre i tempi procedimentali, in talune circostanze, ne tradisce le più nobili finalità. Infatti, in molti hanno ritenuto la normativa “distratta”, “superficiale” e non davvero attenta alla vittima, colta in tutte le sue sfaccettature e fisiologiche sofferenze; mettere chi riesce a trovare il coraggio per denunciare una violenza patita nelle condizioni di rivivere nuovamente, a pochi giorni dai fatti, i propri traumi, evidenzia la mancanza di una lucida osservazione della realtà da parte del legislatore, e ciò si traduce in un terreno fertile per episodi di “secondary victimization”.

4. Conclusioni

Ancora 5

Alla luce delle considerazioni sinora svolte, la vicenda di Artemisia Gentileschi, illustrata nella prima parte di questo articolo, pare inserirsi perfettamente in quel filone di scenari processuali nei quali le vittime sono “vittime due volte”.

La storia si ripete, e tale ripetizione non è mai cessata: la storia della pittrice, il dolore e il suo ruvido scontro con le istituzioni, richiama la storia di tante altre vittime che ancora oggi non trovano un adeguato spazio di tutela nel sistema processuale italiano.

È auspicabile una riforma che allenti i rigidi meccanismi operativi previsti non solo dalla l. n. 69/2019, ma anche dal sistema giudiziario nazionale, in un’ottica che mette al centro la vittima e le conferisce una piena e dovuta dignità.

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