top of page
A&LMOST trasparente.png

IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE: VULNUS AL DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO

Articolo a cura di  Francesco Fernando Annese
Revisione a cura di Anna Flora

Premessa

Il presente articolo si propone di presentare un quadro delle vicende, storiche e attuali, intono alle quale si sviluppa il conflitto in corso tra Israele e Palestina, e di chiarire il ruolo del diritto internazionale umanitario e le violazioni cui è sottoposto. Pertanto, non si intende giustificare né tantomeno favorire alcuna delle parti coinvolte nello scontro.

Buona lettura.

Ancora 1

1. Le origini delle tensioni

​

La genesi delle conflittualità israelo-palestinesi risale alla fine del primo conflitto mondiale, quando due delle potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, decisero di dividersi le province arabe dell’Impero ottomano: la prima estese la sua egemonia sugli attuali territori di Siria e Libano, mentre alla seconda spettarono il territorio della Palestina e gli attuali Iraq e Giordania.

L’amministrazione dei territori in questione avvenne per mezzo dei c.d. Mandati, creati appositamente dalla Società delle Nazioni (le future Nazioni Unite); il Mandato della Palestina venne affidato alla Gran Bretagna, la quale intendeva promuovere l’immigrazione degli ebrei europei in quegli stessi territori, incontrando dunque la resistenza della popolazione locale, che mal tollerava l’incremento della popolazione ebraica. Pertanto, nel corso degli anni, seguirono moti di protesta e violenze perpetrate a danno degli inglesi e della comunità giudaica del luogo.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, il governo inglese decise di rimettere il Mandato alle Nazioni Unite, le quali, con la risoluzione numero 181 (piano di ripartizione della Palestina), approvata dall’Assemblea generale dell’ONU, decisero di dividere la Palestina in uno stato ebraico (che copriva il 55% circa del territorio) e in uno arabo (quasi integralmente musulmano), sotto la giurisdizione internazionale di Gerusalemme. La decisione si scontrò naturalmente con il dissenso della comunità araba, la quale osteggiava la formazione di uno stato ebraico indipendente.
Così, il 15 maggio 1948, a seguito della Dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele, gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq attaccarono il neo stato, dando origine alla prima guerra arabo-israeliana. Il conflitto si concluse l’anno successivo con la sconfitta araba e con l’ulteriore espansione dello stato di Israele, dal cui controllo rimasero escluse la Cisgiordania (occupata dalla Giordania) e la striscia egiziana di Gaza; nel corso del conflitto circa 700 mila palestinesi fuggirono (per timore della guerra o perché sradicati dagli israeliani) ma i loro diritti non furono pienamente riconosciuti dalle altre popolazioni arabe, perché questo avrebbe significato integrare e legittimare Israele. Da questo esodo, noto come “la catastrofe” (Al-Nakbah), prese vita la questione dei rifugiati palestinesi, uno dei punti nevralgici e irrisoluti del conflitto.

Negli anni a venire, gli Stati arabi espulsero dal loro territorio 700 mila ebrei, che a loro volta si trasferirono sul territorio israeliano, sempre più forte e popoloso, alimentando l’ostilità degli arabo-musulmani, che nel 1964 (soprattutto su impulso di gruppi di militanti) istituirono l’Olp, Organizzazione per la Liberazione della Palestina (che si estinguerà nei venti anni successivi).

Nel 1967, al fine di tutelare i propri commerci lungo il Mar Rosso, Israele attaccò l’Egitto, per la cui difesa intervennero la Giordania e la Siria: la disfatta delle forze arabe fu così rapida che il conflitto passò alla storia come “Guerra dei sei giorni”. Inoltre, la vittoria consentì a Israele di occupare la striscia di Gaza, Gerusalemme Est, la Cisgiordania, le alture del Golan e del Sinai.

La preoccupante espansione sollecitò l’invito del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a rispettare i confini e ad una pace giusta e duratura.

Nel 1973, Egitto e Siria invasero il Sinai e le alture del Golan, dando corso alla guerra dello Yom Kippur, la quale si concluderà con la restituzione del Sinai al Cairo e con un’ulteriore espansione di Israele sulle alture del Golan; vennero così inaugurati i tempi di proteste e sollevazioni popolari (non prive di vittime) da parte dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania contro l’occupazione israeliana.

È in questo clima che nacque Hamas (Movimento della Resistenza Islamica), un’organizzazione islamista che spicca per la sua intransigenza nei confronti di Israele e la cui origine si lega alla volontà di distruggere lo stesso Stato di Israele.

Tuttavia, proprio in questi anni e a fronte delle numerose sommosse popolari, i governi israeliano e arabo tentarono di instaurare un dialogo, giungendo ai c.d. Accordi di Oslo (1993-1995), finalizzati alla instaurazione di uno stato palestinese indipendente, secondo il modello della soluzione a due stati (uno israeliano e uno palestiniano) piuttosto che di uno stato con due nazionalità.

L’avvento di Netanyahu al governo di Israele nel 1996 bloccò però le negoziazioni su alcuni punti scoperti degli Accordi, facendo perdere vigore al processo di pace. Non sorprende che lo stallo abbia avuto l’effetto di rianimare il conflitto: nel 2002 Israele costruì un muro per separare i propri territori da quelli arabi in Cisgiordania senza rispettare la c.d. Linea Verde (tracciata nel 1949 tra Israele e regno di Giordania). Per Israele lo scopo del muro risiedeva nella garanzia della sicurezza nazionale contro possibili attacchi terroristici, ma in verità esso ha avuto l’effetto di separare tra loro comunità locali e impedire l’accesso a luoghi di culto e numerosi servizi essenziali (senza contare la presenza militare israeliana nella Cisgiordania).

Nel 2020 sono stati firmati gli Accordi di Abramo per definire le relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi (oltre che Bahrein, Sudano e Marocco); i rapporti tra i Paesi sopra citati avevano visto un miglioramento negli ultimi tre anni ma una soluzione al conflitto era ancora lontana dall’aver luce e le immagini cui assistiamo oggi, nel 2023, lo dimostrano in modo, oserei dire, lapalissiano.

Ancora 2

2. L'escalation attuale​

In uno scenario come quello sopra dipinto, così profondamente segnato da instabilità e continui tentativi di un confronto pacifico, seppur ambigui e in effetti mai concretizzatesi, quel conflitto, considerato quasi endemico e costante nel quadro internazionale, emerge con tutta la sua forza dirompente e omicida nel 7 ottobre 2023, quando Hamas dichiara l’inizio dell’operazione “Al-Alqsa” con il lancio di 5.000 razzi dalla striscia di Gaza contro Israele. In risposta, il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, annuncia che Israele è in guerra e subito si susseguono dichiarazioni di respiro internazionale, prima fra tutte quella della White House: “Israele ha il diritto di difendere sé stesso e il suo popolo”; il governo israeliano dichiara formalmente lo stato di guerra il giorno successivo all’attacco.

Una violenza senza precedenti si consuma in Medio Oriente: civili vengono uccisi, ostaggi israeliani condotti oltre il confine di Gaza, donne in attesa costrette a partorire lungo le strade, il governo israeliano interrompe l’erogazione di energia elettrica nella striscia di Gaza e vieta l’ingresso di cibo e carburante (il c.d. assedio totale), i servizi di telefonia vengono interrotti da Israele. La striscia di Gaza viene bombardata, missili partono dallo Yemen su Israele, lungo le vie si riversano cadaveri.

Nel frattempo, le IDF (Israel Defense Forces) emettono l’ordine di evacuazione per le comunità a nord del Wadi Gazi, tra cui Gaza City, chiedendo a 1,1 milione di palestinesi di spostarsi verso sud entro 24 ore mentre Hamas invita gli abitanti a nord di Gaza di non cedere alle pressioni dell’occupante e di rimanere saldi nelle proprie case. Di fronte all’ordine israeliano, gli organismi internazionali hanno però rotto il silenzio: le Nazioni Unite hanno subito invitato Israele a riflettere sulle devastanti conseguenze umanitarie che lo sfollamento comporterebbe e numerose organizzazioni internazionali hanno condannato l’ordine di evacuazione in quanto violazione del diritto internazionale umanitario (infra). In realtà, la Human Rights Watch si era già espressa sull’assedio totale definendolo un abominio e sollecitando la Corte Penale Internazionale ad assurgere l’atto israeliano a crimine di guerra.

Successivamente, le IDF hanno avviato un’incursione di terra su larga scala lungo la Striscia, dando inizio all’invasione di terra israeliana, cui faranno seguito minacce, sfollamenti, attacchi a convogli medici, scuole e ospedali da parte di Israele. La stessa Turchia ha definito tragedia umana il conflitto in corso, e ha espresso il suo disappunto sugli attacchi sferzati da Israele contro i civili e sul suo rifiuto di cessare il fuoco.

Il 5 novembre, tramite un comunicato congiunto, i capi delle principali agenzie delle Nazioni Unite hanno manifestato il proprio sdegno nei confronti dell’attuale guerra, chiedendo un immediato cessate il fuoco umanitario. Il risultato è stato però deludente, dal momento che è stata accordata una tregua da Israele per sole quattro ore al giorno.

Ad oggi, il ministero della Sanità di Gaza riporta che, dall’inizio del conflitto, il bilancio delle vittime è pari a 9.970 morti, di cui 4.880 minori e 26.000 feriti, a cui aggiungere il numero di circa 1.5 milioni di sfollati – si  tratta però di stime e dati in continua variazione.

Sono numeri che ci inducono necessariamente ad una riflessione profonda sulla tragedia che si sta consumando e di fronte ai quali sorgono due spontanee e fondamentali domande: con quale forza si impongono le norme di diritto internazionale umanitario e a quale stress vengono sottoposte?

3. Il diritto internazionale umanitario

Ancora 3

Prima di inserire il quadro del conflitto nella cornice internazionale si rende doverosa una premessa riguardo l’origini e la natura del diritto internazionale umanitario, che permetta una migliore intelligenza degli eventi in corso.

Il diritto internazionale umanitario (DIU) costituisce l’insieme di regole volte a limitare gli effetti dei conflitti armati, disciplinando la conduzione delle ostilità e proteggendo le vittime dei conflitti. Esso si applica a conflitti armati internazionali e non, a prescindere dalla legittimazione e dalle ragioni che hanno mosso il ricorso alla forza.

Le fonti giuridiche del diritto internazionale umanitario si ritrovano nelle quattro Convenzioni di Ginevra e nei loro Protocolli aggiuntivi e nascono allo scopo di tutelare civili internati, prigionieri di guerra, feriti, limitare le armi impiegate, definire le modalità della guerra (anche se molti di questi obblighi hanno assunto la forma delle consuetudini).

Le maggiori violazioni del diritto internazionale umanitario sono classificate come crimini di guerra. Lo Statuto di Roma, che ha istituito, la Corte Penale Internazionale, prevede due categorie di crimini di guerra: la prima comprende le gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra mentre la seconda le altrettanto gravi violazioni di leggi e usi che trovano applicazione nella cornice del diritto internazionale. Per citarne alcuni, si tratta di deportazione illegale di civili, attacchi alla popolazione civile, stupro, trattamenti lesivi della dignità umana nei confronti dei prigionieri, cattura di ostaggi, attacchi contro beni che non sono edifici militari, uso di gas tossici e di armi biologiche, schiavitù.

Ebbene, fin dall’inizio del conflitto, Israele e Palestina hanno commesso diversi ed efferati crimini di guerra, aprendo una piaga profonda (rectius, un vulnus) nel sistema dei principi di umanità e solidarietà che dovrebbero ispirare gli Stati moderni.

Ancora 4

4. Le infrazioni della Palestina

L’uccisione di molteplici ostaggi e civili israeliani, tra cui bambini, costituiscono crimini di guerra compiuti da Hamas ai sensi dell’art. 3 della Convenzione di Ginevra il quale statuisce che nel caso in cui un conflitto armato privo di carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti belligeranti è tenuta a trattare con umanità, in ogni circostanza e senza distinzione di colore, religione, sesso, nascita o censo, le persone che non partecipano al conflitto, e ancora aggiunge che a questo scopo, sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi, la cattura di ostaggi, gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti.

Ciononostante, Hamas ha già chiarito che non intende rilasciare ostaggi fin quando non saranno cessati i bombardamenti su Gaza, e soltanto se verranno rilasciati 5000 prigionieri palestinesi detenuti da Israele; le parole di Lama Fakih, direttrice di Human Rights Watch per il Medio Oriente, sono cristalline a proposito: “I civili, compresi i bambini, i disabili e gli anziani, non dovrebbero mai ridursi a merce di scambio. I governi che hanno influenza su Hamas, tra cui il Qatar, l'Egitto e la Turchia, dovrebbero fare pressione affinché gli ostaggi vengano rilasciati il prima possibile e trattati umanamente fino ad allora”. Pertanto, chi ha ordinato o posto in essere il sequestro degli ostaggi è penalmente responsabile e i comandanti di Hamas rischiano di incorrere in responsabilità di comando nell’ipotesi in cui siano stati o avrebbero dovuto essere a conoscenza dei crimini compiuti dai loro subordinati, senza impedirli o punire gli artefici.

Ancora 5
5.Le infrazioni di Israele

Fin dal 1947, anche Israele ha violato numerose risoluzioni dell’ONU, tra cui si ricorda la risoluzione n.194 del 1947 nella quale l’Assemblea Generale sancisce il diritto di far ritorno nelle proprie dimore in Israele per i palestinesi; la risoluzione n.171 del 1962 in merito all’attacco di Israele contro la Siria; la risoluzione n.3236 del 1974 in cui l’Assemblea Generale ONU afferma che il popolo palestinese in Palestina gode dei diritti inalienabili all’autodeterminazione libera da influenze esterne, alla sovranità nazionale e all’indipendenza; la risoluzione n.605 del 1987 dove l’ONU manifesta il proprio dissenso sulle politiche israeliane volte a negare il godimento dei diritti umani ai palestinesi; la risoluzione ES-10/15 del 2004 quando l’Assemblea generale ha definito contrario al diritto internazionale il muro costruito da Israele.

Spostando l’attenzione allo scontro odierno, il governo israeliano ha imposto l’assedio totale su Gaza violando il divieto delle punizioni collettive (cioè imposte ad un intero gruppo per azioni commesse da singoli individui) ex art. 33 della Convenzione di Ginevra e l’obbligo di facilitare le forniture vitali ai civili. Per di più, Israele ha colpito senza sosta civili innocenti facendo anche ricorso al fosforo bianco, ossia una sostanza chimica che incendiandosi a contatto con l’ossigeno causa ustioni fatali, potendo bruciare fino alle ossa.

Come già menzionato sopra, è stato ordinato lo sfollamento di una parte consistente della popolazione di Gaza, in violazione dell’art. 49 della Convenzione di Ginevra il quale prevede che i trasferimenti forzati, in massa o individuali, come pure le deportazioni di persone protette, fuori del territorio occupato e a destinazione del territorio della Potenza occupante o di quello di qualsiasi altro Stato, occupato o no, sono vietati, qualunque ne sia il motivo. La Potenza occupante potrà tuttavia procedere allo sgombero completo o parziale di una determinata regione occupata, qualora la sicurezza della popolazione o impellenti ragioni militari lo esigano […].

Naturalmente i crimini internazionali inducono delle responsabilità: la giurisdizione sui crimini di guerra e su altri gravi crimini internazionali commessi spetta alla Corte Penale Internazionale (CPI), cui sarà rimesso, in chiave metaforica, il giudizio sulla crisi umanitaria che ancora una volta torna a scuotere il diritto da un lato e la sensibilità umana dall’altro.

6. Considerazioni conclusive

Ancora una volta, la storia ci (ri)propone immagini di innocenti le cui vite vengono piegate, se non addirittura spezzate, di fronte alla superiore volontà degli “stati” di dichiararsi guerra in nome di ostilità che affondano le proprie radici in un passato lontano e costantemente animato da scontri etnici e religiosi.

Non è certamente questa la sede per prodursi in considerazioni paternalistiche sugli errori commessi nel corso del tempo né tantomeno per esprimere un giudizio a favore dell’una o dell’altra parte in guerra , nondimeno la nuova crisi umanitaria che bussa alle porte del XXI secolo non può lasciarci inermi e deve necessariamente costituire un’esperienza, seppur in tutta la sua tragicità, attraverso cui coloro che detengono il potere normativo possono elaborare soluzioni volte a prevenire conflitti di questa portata o quanto meno ad arginarne i danni sui civili innocenti.

Ed è proprio qui che si innesta il punto nevralgico e doloroso della riflessione: gli organismi internazionali e i singoli Stati si sono dimostrati complessivamente superficiali nella gestione dei rapporti tra Israele e Palestina e ora misurano l’efficacia delle proprie norme e gli esiti effettivi degli accordi siglati tra loro in termini di morti e feriti.

La crisi umanitaria che si dipana in Medio Oriente fa eco a lezioni del passato rimaste forse inascoltate, prima fra tutte la seguente: non esiste guerra che giustifichi un nuovo genocidio.

E noi, civili delle democrazie mature, possiamo rivestire un ruolo non affatto secondario se decidiamo di informarci, di leggere, di filtrare le notizie che ci vengono proposte, di non restare indifferenti: soltanto così avremo piena consapevolezza della strage che si consuma “lontano” da noi e di ciò che non vogliamo si ripeta nelle generazioni a venire.

Per il resto, sarà la storia a esprimere il suo giudizio.

bottom of page