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IL REGIME DEL CARCERE DURO: L'ART. 41 BIS

Articolo a cura di  Anna Flora
Revisione a cura di Federico Grossi

1. Introduzione

Ancora 1

Introdotto con la legge Gozzini nel 1986, l’Art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario prevede il regime del “carcere duro”, la cui applicazione è rivolta a tutti quei soggetti facenti parte della criminalità organizzata, considerati di elevata pericolosità. Questo articolo era in realtà nato per limitare e prevenire le rivolte in carcere, ma la sua portata venne presto ampliata. Esso prevede la sospensione delle normali regole di trattamento per i detenuti e gli internati, motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine, ogniqualvolta ricorrano gravi motivi di pubblica sicurezza. 

Al momento della sua entrata in vigore, l’articolo riportava solo il primo comma, il quale stabiliva la possibilità per il Ministero della Giustizia di sospendere le normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati, in casi eccezionali di rivolta e di gravi situazioni di emergenza. Una volta ripristinato l’ordine e la sicurezza stessa all’interno del carcere, le restrizioni dovevano essere immediatamente revocate. Pertanto, la norma era applicabile esclusivamente a situazioni interne al carcere. 

Nel 1992, a seguito della strage di Capaci, la portata applicativa di questo regime fu esteso a tutti i detenuti reclusi per reati di mafia, con la finalità di regolare e controllare i rapporti tra l’interno e l’esterno del carcere. La norma doveva avere carattere temporaneo, ma, dopo essere stata prorogata per dieci anni, il governo Berlusconi ne stabilì l’efficacia definitiva nel 2002. 

Ad oggi, l’Art. 41-bis è uno degli strumenti maggiormente utilizzati in materia di criminalità organizzata. 

Il “carcere duro” è un particolare regime detentivo finalizzato a ridurre al minimo ogni contatto con l’esterno. Esso viene applicato a detenuti particolarmente pericolosi che abbiano agito nell’ambito di associazioni mafiose, terrorismo, riduzione in schiavitù e altri reati di estrema gravità. Questo regime prevede numerose limitazioni, al fine di evitare che i detenuti persistano nella conduzione dell’organizzazione delle associazioni criminali di cui fanno parte. La prima di queste limitazioni consiste nell’isolamento del detenuto, rinchiuso all’interno di una cella individuale. I colloqui, che possono avvenire solo una volta al mese, si tengono attraverso un divisorio di vetro e vengono registrati, in modo tale da evitare qualsiasi segreto o anche solo contatto tra il detenuto e i parenti. Infine, le due ore d’aria concesse ai detenuti possono essere trascorse esclusivamente in gruppi da quattro persone. Le misure attinenti al carcere duro possono essere revocate dal Tribunale di sorveglianza, solo in caso di reclamo o di una decisione che dichiara il provvedimento illegittimo. Per questi motivi, l’Art. 41-bis è stato da molti paragonato ad una forma di tortura, dal momento che i detenuti soggetti alla sua applicazione vengono privati di molte più libertà rispetto ai detenuti semplici. 

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2. Il caso Alfredo Cospito: le proteste

Nel corso degli anni sono state avanzate numerose critiche e proteste nei confronti dell’Art. 41 – bis. Un caso eclatante e di estrema attualità è quello di Alfredo Cospito, primo anarchico ad essere stato sottoposto a questo particolare regime detentivo. L’uomo ha 56 anni ed è attualmente rinchiuso all’interno del carcere di Opera, a Milano. Egli ha subito una prima condanna per la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, seguita da una seconda per aver piazzato due ordigni al di fuori della Caserma di Cuneo. Nei suoi confronti, la Corte di Cassazione ha disposto la condanna per strage ai danni dello Stato, prevedendo la pena ergastolo con dodici mesi di isolamento. 

Nel caso in questione, la scelta di applicare il regime detentivo del carcere duro è stata motivata dal diffondersi di alcuni scritti che invitavano gli anarchici a non rinunciare alla violenza, i quali hanno portato i giudici ad individuare un forte collegamento tra il condannato e la militanza attiva al di fuori del carcere. La Corte di Appello di Torino ha dunque disposto l’applicazione dell’Art. 41 – bis, al fine di limitare qualsiasi contatto tra Cospito e il gruppo di cui era a capo, in modo tale da ridurre la possibilità del verificarsi di ulteriori stragi. Gli avvocati della difesa hanno cercato di fare ricorso, ritenendo che non potesse essere provata la presenza di alcuna associazione terroristica riconducibile al condannato, senza però ottenere alcun risultato. 

 

Per i motivi appena illustrati, Alfredo Cospito ha iniziato a condurre uno sciopero della fame al fine di protestare contro l’applicazione del regime detentivo. A fine gennaio del 2023, il rifiuto di essere nutrito ha raggiunto i cento giorni, rendendo di facile intuizione le disastrose condizioni fisiche in cui riversa il detenuto. Egli rifiuta ogni forma di alimentazione forzata e il suo peso è inferiori ai 40 chilogrammi. A tal proposito, numerosi gruppi di anarchici hanno organizzato proteste e rivolte nelle strade delle principali città italiane, soprattutto a Milano, durante le quali pongono in essere violenti atti vandalici al fine di rivendicare le condizioni in cui riversa il compagno e chiedere l’abrogazione del regime del carcere duro. 

Come risposta, il governo ha scelto una azione dura, tenendo ferma la decisione di mantenere in vigore l’Art. 41 – bis. Il legale di Cospito ha presentato ulteriore ricorso presso il Tribunale di Roma, e l’udienza sul caso si terrà il 7 marzo 2023. 

3. Il caso Bernardo Provenzano: la violazione dell’Art. 3 CEDU. 

Ancora 3

Bernardo Provenzano fu uno dei più pericolosi protagonisti della malavita siciliana, nonché boss di Cosa Nostra. Dopo essere rimasto latitante per più di quarant’anni, egli venne arrestato nel 2006 e sottoposto a processo per una serie di gravissimi delitti, tra i quali associazione mafiosa, strage, tentato omicidio aggravo, traffico di stupefacenti, sequestro di persona, detenzione illegale di armi ed estorsione. All’esito delle vicende processuali, il boss venne condannato a dodici ergastoli. Nondimeno, il Ministero della Giustizia dispose, tramite un provvedimento motivato, l’applicazione dell’Art. 41 – bis. Dal momento che il condannato provò più volte a comunicare in codice con l’esterno durante il suo primo anno di prigionia, al regime del carcere duro venne accostato anche un regime di “sorveglianza speciale”, il quale prevedeva ulteriori restrizioni. Provenzano rimase sottoposto a questo durissimo regime detentivo in maniera continuativa fino alla data della sua morte, per effetto di una serie di proroghe. 

Gli ultimi anni della detenzione di Bernardo Provenzano sono stati caratterizzati da un forte peggioramento delle sue condizioni di salute: egli soffriva di una grave malattia, un cancro, la quale ha determinato il deterioramento delle sue funzioni cognitive. Proprio per questo motivo, sono state effettuate numerose istanze di revoca dell’Art. 41 – bis, nessuna delle quali è stata però mai accolta.  Nel luglio del 2014 la procura di Palermo ha disposto la deroga del regime del carcere duro, ponendo come motivazioni le pessime condizioni di salute del detenuto, il quale fu ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano nello stesso anno. Nell’estate 2015 però, la Corte di Cassazione ha riconfermato il regime detentivo previsto dall’Art. 41 – bis presso il carcere di massima sicurezza dell’ospedale, in cui il detenuto morirà l’anno successivo. 

 

Durante gli anni della pena, Massimo Provenzano aveva presentato numerose istanze inerenti anche al carattere ingiustificato del regime differenziato di “sorveglianza speciale”, applicato in combinato disposto con l’Art. 41 – bis. Le istanze vennero tutte rigettate, sulla base dell’impossibilità di stabilire se, nonostante il deterioramento delle funzioni cognitive e comunicative del condannato, lo stesso fosse in ogni caso in grado di comunicare con l’esterno al fine di continuare a dirigere le attività di stampo mafioso, grazie alla fitta rete di comunicazioni e di contatti che aveva costruito e rafforzato durante la sua latitanza. Si temeva infatti che, nonostante la grave malattia, il boss fosse in ogni caso in grado di mantenere i contatti con l’associazione mafiosa. 

Per queste ragioni, Provenzano si rivolse, per mezzo del figlio, alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, sostenendo la violazione dell’Art. 3 della CEDU, il quale proibisce la tortura e il trattamento, o pena, disumano e degradante. Tale violazione venne sostenuta sotto due diversi profili: da un lato, il profilo inerente allo stato di detenzione, rispetto al quale il ricorrente lamentava l’incompatibilità della detenzione con le sue condizioni di salute e l’inadeguatezza delle cure ricevute. Dall’altro, il profilo concernente la perdurante sottoposizione al regime del carcere duro, la quale non risultava essere più giustificata in ragione del deterioramento delle sue funzioni cognitive. 

I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la violazione dell’Art. 3 CEDU solo rispetto alla proroga del regime differenziato, ma non rispetto alle condizioni di detenzione. La Corte ha infatti riconosciuto che sottoporre un individuo ad una serie di restrizioni aggiuntive, imposte discrezionalmente e senza fornire una adeguata motivazione, leda gravemente la dignità umana e integri una violazione dei diritti sanciti dall’Art. 3 CEDU. Nel caso specifico, la ragione di violazione dell’Art. 3 CEDU risiedeva nella mancata dimostrazione, da parte del Tribunale, che, nonostante lo stato di deterioramento psichico, il ricorrente sarebbe stato in ogni in grado di comunicare con l’associazione. La Corte ha infatti rilevato la mancanza di un’attenta considerazione del peggioramento delle condizioni cognitive del detenuto nell’ambito delle valutazioni inerenti alla sussistenza delle finalità preventive che devono giustificare l’applicazione del regime differenziato. 

 

A seguito di questa analisi, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’applicazione del regime di cui all’Art. 41 – bis è considerata di per sé legittima, anche se di lunga durata, solo se giustificata, in concreto, da finalità di prevenzione. È infatti necessario effettuare una necessaria, attuale e concreta valutazione della pericolosità del detenuto, per giustificare e rendere legittima l’applicazione del regime detentivo previsto dall’Art. 41 – bis. 

4. Corte europea dei diritti dell’uomo: condanna all’Italia per l’Art. 41 – bis. 

Ancora 4

La Corte di Strasburgo ha stabilito che il regime del carcere duro è una forma di tortura, nonché una grave violazione dell’Art. 3 CEDU. Una delle sentenze più importanti è stata emanata proprio con riguardo al caso di Bernardo Provenzano.  Per i giudici della Corte, infatti, la privazione della libertà personale senza adoperarsi per la riabilitazione e la rieducazione delle stesse è incompatibile con la dignità umana. 

Inoltre, nel 2019 il Consiglio d’Europa ha invitato le autorità italiane ad avviare una seria riflessione sull’attuale configurazione ed esecuzione del regime detentivo del carcere duro in tutto il sistema carcerario. Per questo motivo, nello stesso anno, la nostra Corte costituzionale ha decretato illegittimo privare dei benefici penitenziari un detenuto, a patto che non sussista o che non sia provato alcun rischio di ripristinazione dei rapporti con la criminalità organizzata. 

Attualmente, non sono state apportate alcune modifiche all’Art. 41 – bis, anche se il Comitato anti – torture raccomanda che si provveda affinché tutti i detenuti siano dotati di maggiori attività finalizzate e in grado di trascorrere almeno quattro ore al giorno al fi fuori della cena, affinché vengano riconosciuti i diritti di visita e le autorizzazioni ad effettuare almeno una telefonata al mese, indipendentemente dal fatto che ricevano una visita nel mese stesso. 

Queste indicazioni hanno assunto un ruolo centrale con riguardo al caso Cospito, in forza del quale potrebbero essere apportate reali modifiche al regime detentivo previsto dall’Art. 41 – bis. 

Sitografia

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