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LA PROPORZIONALITA' DELLA PENA: DALLA CARCERI ALLA GIUSTIZIA RIPARATIVA. 

Articolo a cura di  Sofia Carlino 
Revisione a cura di Federico Grossi

1. Il concetto di pena: da Beccaria alla Costituzione

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Il principio di proporzionalità può essere considerato una delle “pietre angolari” del diritto penale, oggetto, sin dai tempi di Beccaria, di analisi e approfondimento con particolare riguardo alla selezione dei reati in base agli interessi da tutelare e alla determinazione della giusta misura e tipologia di sanzione da infliggere. È importante partire dal presupposto che la nozione di proporzionalità della pena, in realtà, non è espressamente affermata da alcuna disposizione legislativa, ma è desumibile dall’art. 27 della Costituzione, che nel 3° e 4° comma recita:

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte.”

In ambito letterario, il primo ad essersi occupato della dottrina della proporzionalità è stato Cesare Beccaria, giurista e criminologo italiano del XVIII secolo, noto soprattutto per la sua opera "Dei delitti e delle pene", pubblicata nel 1764. Nel saggio, il giurista riteneva che il Diritto penale dovesse essere finalizzato alla protezione della società e dei suoi membri, e non alla vendetta o al castigo degli individui. Per lo stesso motivo si opponeva fermamente alle pratiche giudiziarie dell'epoca, come la tortura e la pena di morte, ritenendole degradanti e crudeli. Fu probabilmente grazie alla sua influenza che ebbe origine uno dei primi movimenti di pensiero sulla necessità di stabilire una relazione proporzionale tra la gravità del reato commesso e la severità della pena inflitta.

Ad oggi, la giustizia Costituzionale si sofferma sulla funzione che viene attribuita alla sanzione penale all’interno della società. Una dottrina della pena è chiamata a rispondere a tre quesiti fondamentali: perché la sanzione penale costituisce una risposta adeguata a un comportamento socialmente riprovevole? Quali condotte meritano di essere sanzionate penalmente? E soprattutto: come deve essere punito chi ha commesso un reato?

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2. Le pene secondo le diverse dottrine e i contrasti con la Costituzione

Nel dibattito contemporaneo, le risposte a queste domande fanno capo a tre dottrine della pena: quella retributiva, quella preventiva e la dottrina dell’emenda.

La prima dottrina trova fondamento nell’esigenza di rendere giustizia, di imporre al reo di “restituire” quanto egli ha sottratto alla vittima e alla società tramite le sue azioni. E questa restituzione può risultare “equa” soltanto se chi ha commesso un reato subisce una pena equivalente o proporzionale al male che ha arrecato. L’emblema storico e culturale della teoria retributiva è da rintracciarsi nella lex talionis, che riconosce a chiunque abbia subito un danno da una persona la possibilità di infliggere a quest’ultima un’offesa uguale.

Secondo la dottrina preventiva, invece, la pena è da considerarsi come un deterrente per prevenire reati futuri più che come punizione per il reato già commesso. Ciò implica certamente che la severità della pena debba essere proporzionale alla gravità del reato, ma anche sufficientemente dura da dissuadere i potenziali criminali, al fine di ridurre il tasso di criminalità. Ciò può includere l'uso di pene esemplari, come la pena di morte o l'ergastolo per i reati più gravi, ma solo qualora venga dimostrato che suddette pene esercitino una sorta di coazione psicologica sui consociati; in caso contrario, esse non troverebbero giustificazione alcuna all’interno del sistema giudiziario.

Del più moderno concetto della reintegrazione, inserito nella maggior parte delle Costituzioni degli stati democratici contemporanei solo dopo la Seconda Guerra mondiale, si occupa, invece, la dottrina dell’emenda, adottata peraltro dal sistema penale italiano. I principi costituzionali coinvolti, in una prospettiva di razionalitaÌ€ punitiva, delineano una cornice chiaramente preordinata a bilanciare l’efficienza repressiva con la garanzia dei diritti fondamentali della persona. In questo caso, dunque, la pena assume primariamente una connotazione di “recupero sociale”, finalizzata al reinserimento nella societaÌ€ del colpevole, nel tentativo di scongiurare la possibilità che possa tornare a delinquere.

Alla luce del finalismo rieducativo, sorgono non pochi dubbi circa la compatibilità con la Costituzione anche della pena dell’ergastolo, il cui carattere perpetuo eÌ€, per tanti versi, in contrasto con il principio di umanità, facendo smarrire al recluso la speranza di poter riacquistare in futuro la libertà, per cui la natura illimitata della pena quasi inibisce il profilo rieducativo della medesima.

Tuttavia, alcuni interventi legislativi hanno ridimensionato la sua durata perpetua consentendo che il condannato possa essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena. Ancora, la legge n. 663/1986 ha esteso ai condannati all’ergastolo l’istituto della semilibertà (dopo aver espiato almeno 20 anni di pena) e della liberazione anticipata. Il carattere della “illimitatezza” della durata della pena assume contorni differenti con riferimento al c.d. ergastolo “ostativo”. Infatti, i detenuti all’ergastolo ostativo non hanno la possibilità di usufruire di alcun beneficio penitenziario, proprio in ragione dell’estrema gravitaÌ€ dei reati per i quali hanno subito una condanna.

3. Il sovraffollamento delle carceri e la sentenza Torreggiani 

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Emblematica in questo ambito è stata la sentenza Torreggiani del 2013, una vera e propria sentenza pilota, a seguito della quale la Corte ha invitato lo Stato convenuto ad adeguare la propria legislazione nazionale a quanto stabilito nel dispositivo della sentenza stessa, indicando le misure di carattere generale che il governo è tenuto ad adottare entro un lasso di tempo prestabilito, decorso inutilmente il quale lo Stato si espone al rischio di ulteriori condanne.

In questo caso specifico, il perdurante fenomeno del sovraffollamento carcerario ha indotto la Corte a procedere all’esame congiunto di 7 differenti ricorsi riguardanti le pessime condizioni di detenzione lamentate dai carcerati negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza: le celle condivise erano troppo piccole, i requisiti igienico-sanitari non erano minimamente raggiunti, e lo spazio, di per sé insufficiente, era ulteriormente ridotto dall’apposizione alle finestre di pesanti sbarre metalliche che impedivano all’aria e alla luce del giorno di entrare nei locali.

Peraltro, la difficoltà dello Stato italiano nel fronteggiare il problema del sovraffollamento delle carceri era già stata sottoposta al vaglio della Corte EDU nel caso Sulejmanovic c. Italia, ma nonostante i tentativi di arginare il problema, le misure adottate erano più idonee a fronteggiare situazioni emergenziali e non si tradussero in riforme strutturali del sistema penitenziario e penale.

Pertanto, la sentenza Torreggiani ha permesso alla CEDU di riprendere in mano la questione, condannando l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Premettendo l’insufficienza di tali misure, bisogna tuttavia riconoscere che ci si è adoperati nel senso dell’adeguamento a quanto prescritto a livello sovranazionale, adottando legislazioni che contengono un’articolata disciplina in materia e trovano conferma nell’art. 1 della legge n. 354/1975 sull’ordinamento penitenziario: il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e assicurare il rispetto della dignità della persona agendo in maniera assolutamente imparziale e contraria a discriminazioni di qualsiasi genere. Rilevante apporto è stato dato poi dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), che nel corso degli anni ha fornito delle linee guida per la qualità generale dei servizi penitenziari

4. La riforma Cartabia e la giustizia riparativa 

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Con il decreto legislativo di attuazione della legge delega n. 134/2021 è stata definitivamente approvata la disciplina organica della giustizia riparativa, già considerata da militanti giuristi negli ultimi anni, ma mai applicata.

L’idea di una giustizia della riparazione, nella sua contrapposizione alla tradizionale giustizia punitiva, è indubbiamente rivoluzionaria, in quanto modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. La giustizia della riparazione introduce nel sistema una dialettica "tripolare": non c’è più solo lo Stato che punisce e l’autore del reato che subisce la pena, ma viene messa in risalto anche la vittima, sostituita dallo Stato e sola spettatrice nel processo. Il paradigma riparativo permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale.

La scelta italiana dell’ex Ministra Cartabia è stata quella di un percorso "parallelo" volto alla ricomposizione del conflitto: non una giustizia alternativa a quella tradizionale (con superamento del paradigma punitivo), e nemmeno un modello sussidiario, bensì complementare.

Difatti, i programmi di giustizia riparativa sono da intendersi non già in una prospettiva compensatoria e di indennizzo, ma come progettazione di azioni consapevoli e responsabili verso l’altro, che possano ridare significato, laddove possibile, ai legami fiduciari fra le persone. Ad oggi, gli strumenti più utilizzati a tal fine sono la “Victim-Offender Mediation” - che, come dice il nome stesso, è la mediazione guidata tra le due parti processuali - e le cd. scuse formali, con cui il reo riconosce pubblicamente la gravità delle sue azioni e ne assume la piena responsabilità.

5. Conclusione 

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Nonostante l'importanza della proporzionalità della pena, la sua applicazione rimane una questione complessa e dibattuta. I giudici e i legislatori devono guardare ai diritti dei criminali e a quelli delle vittime e della società nel suo insieme, in un lavoro di bilanciamento tutt’altro che agevole, che peraltro richiede una valutazione ponderata delle circostanze individuali del reato. Nondimeno, questa valutazione si integra nel contesto di una società mutevole e in continua evoluzione: è questa la sfida di una giustizia salvifica, che ricerca un utile collettivo in chi è a sua volta in debito verso la collettività. Dirottando – e non solo punendo – le energie di chi ha sbagliato. 

Sitografia

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