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DELLA POLITICIZZAZIONE DELLA CORTE SUPREMA DEGLI USA

Redazione a cura di Francesco Neri

1. Introduzione e principali compiti della Corte 

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“Chief and Associate Justices of the Supreme Court of the United States of America”: questi i titoli del Presidente e dei Componenti della suprema corte federale degli Stati Uniti, non quindi appellati quali giudici, ma per il tramite della personalizzazione del sostantivo “giustizia”.

A sé avocante la judicial review of legislation sin dalla celeberrima sentenza Marbury v. Madison del 1803, tale organo giurisdizionale trova la propria norma istituente e la propria definizione primigenia nel Terzo Articolo della Costituzione federale, è titolare dell’ultimo e definitivo grado di giudizio nei processi federali e in quei casi statali per cui sia coinvolto e rilevante l’ordinamento federale, ha inoltre il potere di deliberare l’annullamento di quegli executive orders che trovi in antinomia con fonti di rango superiore, è infine caratterizzata da giurisdizione originale in un novero circoscritto di processi, ove fra le parti figurino pubblici ufficiali investiti di funzioni diplomatiche o Stati federati in lite. Ancora, il suo Chief Justice è il soggetto designato alla presidenza del Senato durante il dibattimento di un caso di impeachment nei confronti del Presidente federale in carica.

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La nomina dei Componenti di tale corte è assegnata quale prerogativa dal già citato Articolo III della Costituzione al Presidente degli Stati Uniti in carica al momento del verificarsi della vacancy, ergo, sebbene il costituente statunitense operasse in un’età storica caratterizzata da una diversa concezione della Presidenza, fin dal principio del vigore della Carta risultava manifesto il necessario rapporto di vicinanza ideologica fra il nominante, uomo politico, e quindi di parte, e il nominato. Ciononostante, di certo non può non essere menzionato il sistema di checks and balances pur presente nell’ordinamento americano, concepito proprio quale elemento di contrappeso ai vasti poteri del Commander in Chief, il quale si sostanzia nella necessità per le nomine presidenziali di essere confermate a maggioranza relativa dal Senato federale, la Camera alta ove ogni Stato dei cinquanta componenti l’Unione esprime due Senatori, indipendentemente dalla popolazione di ciascuno; tuttavia, l’assenza della previsione per voti di questo genere del filibuster, ovvero della pratica di ostruzionismo parlamentare che rende necessaria una maggioranza rafforzata di 60 consensi per ottenere un voto, costituisce un elemento di forte temperamento del summenzionato contrappeso, questo poiché, in presenza di una omocromia fra la Casa Bianca e la maggioranza in Senato, le nomine presidenziali sono destinate ad un’approvazione resa, come spesso caratterizzato dalla stampa statunitense, at the speed of light.

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2. La crescente politicizzazione della Corte 

Inoltre, il processo di polarizzazione della politica americana, evidente nella sua misura incredibilmente vasta almeno fin dai tempi della presidenza Reagan, ha fatto sì che il carattere terzo ed indipendente della Corte Suprema negli ultimi quarant’anni è stato messo ancora di più a serio rischio. Innanzi tutto, i Presidenti degli ultimi decenni, indipendentemente dal proprio schieramento politico, hanno tutti perseguito la nomina di persone relativamente giovani quali Justices, basti pensare alle recenti nomine dell’amministrazione Trump, quali quelle di Neil Gorsuch, di quarantanove anni al momento della designazione, e di Amy Coney Barrett, appena quarantottenne al momento della propria conferma nel 2020 (non molto più anziane le due Justices  nominate da Obama, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan, confermate dal Senato all’età rispettivamente di cinquantacinque e cinquanta anni): tale tendenza, se letta alla luce del carattere vitalizio della tenure nella Suprema Corte, aiuta a comprendere la volontà di insediare quali suoi membri donne e uomini non solo o non in massima parte in base a un criterio di competenza e credibilità, ma in primis secondo l’aspettativa di quanto a lungo sia ragionevole aspettarsi che possa svolgere la propria funzione quello che si considera un proprio asset politico nella Corte, che può divenire così, se si riesce ad insediarvi una maggioranza di magistrati ideologicamente vicini al proprio partito, un fondamentale alleato delle Presidenze da questo espresse. 

In particolare, in ragione della già ricordata modalità di elezione dei Senatori federali, che, considerati i demograficamente piccoli ma numerosi red States ha spesso favorito la presenza di maggioranze repubblicane, soprattutto i Presidenti del GOP sono riusciti ad ottenere la conferma della nomina di Justices vicini all’area dell’Old Tea Party, ovvero fortemente originalisti (sia sufficiente ricordare Scalia, nominato da Reagan nel 1986), e convintamente conservatori, ovvero, al di là del merito delle posizioni assunte, lontani da quel profilo di moderazione e neutralità ideologica che in genere almeno nel dibattito pubblico si erano sempre considerate auspicabili nella massima misura possibile per una designazione politica. Se non tutti i Presidenti repubblicani hanno seguito tale schema di azione, come del resto dimostrato dalla nomina a Supreme Justice nel 2005 da parte di George W. Bush di John Roberts, moderato e frequente swing vote fino al 2020, è altrettanto vero che i due Associate Justices ad oggi considerati più radicalmente conservatori, pro life e non inclini alla sanzione giudiziaria di diritti civili non esplicitati nella Costituzione, sono stati espressione di Presidenti repubblicani e a propria volta conservatori: chi scrive si riferisci alla già ricordata Amy Coney Barrett e al celebre Clarence Thomas, confermato ad appena quarantatré anni nel 1991. In particolare, la nomina della prima risultò almeno in parte controversa perché avvenuta a meno di due mesi di distanza dalle elezioni presidenziali che avrebbero sconfessato il mandato politico proprio del suo nominante, oltre che per la forzata compressione dei tempi di conferma voluta da quello stesso leaader repubblicano, Mitch McConnell, che nel 2016 aveva rifiutato per quasi un anno di votare la designazione di Merrick Garland ad opera di Obama in sostituzione del defunto Scalia, adducendo a giustificazione la concorrenza dell’anno delle elezioni; il lungo servizio del secondo, invece, da sempre è considerato dall’ala più liberal dei democratici quale la prolungata difesa di valori anacronistici che, nell’opinione dei progressisti, con sempre maggiore successo Thomas riesce a far divenire maggioritari nella formazione del consenso della Corte. Peculiarmente, fra i Justices attualmente in carica, sia Thomas che Barrett sono stati confermati con la più esile maggioranza di voti al Senato (58-42) dopo quella che portò alla convalida della nomina nel 2018 di Brett Kavanaugh, confermato con appena cinquanta voti, tutti repubblicani, contro quarantotto, tutti democratici.

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3. L’ipotesi del “packing the Court” e gli effetti negativi della politicizzazione della Corte 

Invero, proprio a causa delle tre nomine finalizzate da Trump nel quadriennio 2017-2021, la maggioranza della Corte è ad oggi composta da magistrati individuati da Presidenti repubblicani, sei contro i tre nominati da Presidenti democratici, e, come già accennato, dei sei costituenti la maggioranza, vista l’eccezione moderata del Chief Justice Roberts, almeno cinque esprimo posizioni ed hanno una formazione culturale e giuridica definita da molti quotidiani statunitensi quale super conservative. Tale realtà, se si usa onestà intellettuale, è la principale ragione di recenti pronunciamenti della Corte, innovativi rispetto a proprie posizioni consolidate, quali quelli sul disconoscimento della protezione federale del diritto all’aborto (tramite l’overruling di Roe v. Wade), sull’annullamento del divieto legislativo in vigore a New York relativo alle concealed guns e su altri casi notevoli. Frustrata dalla presente situazione, l’area politica democratica, ed il Presidente Biden che la rappresenta, ha insediato una commissione con il compito di studiare i possibili effetti di un ampliamento della Corte, del resto già avvenuto per tramite di leggi statutarie federali nel corso del XIX secolo e già reso arma di pressione dalla Presidenza Roosevelt quando la Suprema Corte degli anni ’30 minacciava la sopravvivenza del New Deal. Tale commissione, tuttavia, ha concluso che il così detto packing della Corte Suprema costituirebbe un precedente potenzialmente deleterio.

Infine, considerati tutti i fatti finora descritti, risulta evidente che, ad oggi, la Corte Suprema degli Stati Uniti sia ben distante da quei caratteri di apoliticità, terzietà ed indipendenza che pure dovrebbero essere caratteristici di un organo giudiziale che combini la giurisdizione sull’ultimo grado di appello in ogni processo di rilevanza federale e il potere di Judicial Review. La lezione che è possibile trarre dall’analisi della presente condizione della Corte è il carattere fondamentale della vera separazione dei poteri quale precondizione del benessere dello stato del diritto, stante che tale separazione, se davvero il caso statunitense è esemplare, dovrebbe estendersi anche alle modalità di nomina dei magistrati, almeno quando essi siano investiti di attribuzioni e poteri vasti quanto quelli esercitati da coloro che fin nel titolo hanno l’ambizione di incarnare la giustizia suprema.

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