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STOPPING THE COUNT

Luci e Ombre del Sistema Elettorale Americano

Redazione a cura di Martina Chiappa e Vincenzo Terracciano

Ancora 1

1. Il funzionamento del sistema americano – a cura di Anna Conte

Gli Stati Uniti d’America sono una repubblica presidenziale, forma di governo appartenente al sistema della democrazia rappresentativa, in cui il potere esecutivo si concentra nella figura del Presidente, che riveste il ruolo di capo dello Stato e che è al contempo capo del governo.
 

Il Presidente, perno centrale dell’intero sistema, viene selezionato secondo i meccanismi di una peculiare procedura elettorale. In particolare, le modalità con cui vengono svolte le elezioni sono disciplinate in maniera piuttosto dettagliata dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America (precisamente dall’art. 2, Sez. I della Constitution of the United States, modificato secondo gli Emendamenti XII, XXII e XXIII).
 

Volendo ripercorrere in maniere essenziale la fisionomia del sistema elettorale americano, si dovrebbe anzitutto osservare che le elezioni hanno luogo ogni 4 anni - il martedì immediatamente successivo al primo lunedì di novembre, il Giorno dell’Elezione.  Il sistema elettivo si compone di una prima fase, cui comunemente ci si riferisce con l’espressione “elezioni primarie”, di natura preliminare e non prevista dalla Costituzione americana; in essa vengono eletti in modo diretto i candidati alla presidenza e alla vicepresidenza dei maggiori partiti politici, ovverosia il partito democratico ed il partito repubblicano. 
 

Una volta selezionati, i candidati di ciascun partito politico sono chiamati a contendersi la presidenza degli Stati Uniti d’America nella fase elettiva centrale. Insieme ad essi, tutti i cittadini americani con diritto di voto sono chiamati alle urne per le elezioni; in tale sede, possono scegliere se votare per un singolo candidato o per l’intera lista di un partito.
 

I voti elettorali vengono aggiudicati all’interno di ciascuno Stato con un sistema maggioritario secco (‘winner takes all’), in forza del quale il candidato che vince all’interno di esso ottiene la totalità dei grandi elettori dello stesso. 
 

Terminata tale fase, ha luogo l’elezione dei grandi elettori all’interno di ogni singolo Stato. Dal punto di vista funzionale, essi hanno il compito di rappresentare i cittadini americani all’interno del collegio, votando Presidente e Vicepresidente con preferenza espressa a scrutinio segreto, presso il campidoglio del proprio Stato. 
 

Il numero complessivo dei grandi elettori è di 538, ed esso è pari alla somma dei deputati e senatori che ogni Stato detiene all’interno delle Camere di Congresso. Ciascuno Stato federato ha diritto ad un numero variabile di grandi elettori, che si basa sulla sua popolazione, e che può variare da 2 fino ad oltre 50. Il candidato che ottiene almeno 270 voti è il vincitore e nuovo Presidente degli Stati Uniti.

2. Confronto fra sistemi elettorali: Italia vs U.S.A. – a cura di Maria Paola Lucca e Francesco Neri

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Come abbiamo potuto comprendere, dunque, negli U.S.A. la procedura di elezione del Presidente non è diretta. Infatti, il voto popolare determina la composizione della delegazione dei Grandi Elettori di ogni Stato ma non necessariamente il candidato vincitore, che, come nei recenti casi di George W. Bush (2000) e di Donald Trump (2016), può assurgere alla Casa Bianca pur ricevendo meno suffragi dell’opponente.
 

Questo sistema è in parte differente dal sistema elettorale italiano. In primo luogo, la maggiore differenza si può rilevare nel ruolo stesso del Presidente. Dove, infatti, in U.S.A. la figura di Presidente concerne sia il ruolo di capo di stato che di governo, nel nostro Paese tali funzioni di vertice sono distinte, le prime afferiscono al Presidente della Repubblica, le seconde al Presidente del Consiglio dei ministri. In secondo luogo, in Italia al contrario degli States, la carica di Presidente del Consiglio non ha carattere elettivo, ma viene assegnata dal Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 92 della Costituzione. La figura del Presidente del Consiglio, per come regolata nella carta costituzionale, ha la finalità di mediare ed agevolare gli equilibri fra i gruppi parlamentari di maggioranza, tra i quali il medesimo solitamente viene selezionato e tra i quali seleziona la squadra di governo (i ministri). Difatti, come disciplinato dall’art. 95 Cost., il Presidente del Consiglio è responsabile della politica generale del Governo, si occupa di dirigerla e di tenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, sia nei rapporti interni allo Stato italiano che nei rapporti internazionali. Infine, il Presidente del Consiglio promuove e coordina l’attività dei dicasteri. Invero, le attribuzioni di tale organo sono state chiarite con puntualità solo dalla Legge n. 400/1988, nella quale viene delineato il ruolo del Presidente del Consiglio quale quello di un primus inter pares tra i ministri. Conferisce inoltre al Capo di Governo i poteri di convocazione del Consiglio dei Ministri; l’adozione dell’ordine del giorno del medesimo; la facoltà di direttiva ai ministri in attuazione di decisioni collegiali già oggetto di voto; la capacità di sospensione di atti ministeriali; e di avocazione di questi al Consiglio ed altre prerogative. 
 

È possibile osservare come il vertice dell’esecutivo italiano difetti di molteplici poteri spesso riconosciuti ai suoi omologhi in altri ordinamenti occidentali: è possibile ricordare, ad esempio, la proposizione alla firma motu proprio della decretazione d’urgenza o la rimozione dei ministri dal proprio incarico, risultata controversa fin dalla lite delle comari tra i ministri Andreatta e Formica nel 1982; ancora, le fonti primarie mancano della disciplina concernente i casi di morte, impedimento permanente o rimozione ex lege dall’incarico del Presidente del Consiglio, restringendo la possibilità di supplenza dei suoi Vice al solo impedimento temporaneo.
 

Al contrario, negli Stati Uniti d’America, come sopra accennato, il Presidente federale somma ai poteri esecutivi le attribuzioni proprie della funzione di vertice dello Stato, fra cui: la concessione del presidential pardon, equipollente agli atti di clemenza individuale della civil law; l’accettazione delle lettere patenti degli Ambasciatori; e la discrezionalità nella promulgazione o nel veto espresso o per inerzia (pocket veto) di qualsiasi norma o mozione approvata dal Congresso. Inoltre, gli stessi poteri esecutivi della Presidenza sono straordinariamente vasti rispetto a quelli riconosciuti al Presidente del Consiglio italiano, tanto da spingere alla teorizzazione di una Imperial Presidence a partire dal primo mandato di Richard Nixon: seppur sottoposte alla sanzione senatoriale, le nomine del Commander in Chief si estendono alla quasi totalità dei funzionari governativi ed alla totalità della magistratura federale, constante anche della Corte Suprema e, sebbene si tratti di situazioni limite, possono eludere per molti mesi perfino il voto di conferma per mezzo dei recess appointments; a capo dei dicasteri, i Segretari sono gerarchicamente sottoposti al Presidente e possono essere in qualsiasi momento rimossi da questi, così da essere sostituiti da Acting Secretaries maggiormente graditi. Inoltre, gli ordini esecutivi del POTUS non conoscono limiti nella propria efficacia al di fuori della riserva di legge e delle guarentigie delle poche Autorità ed Agenzie indipendenti (Unitary Executive Theory); gli executive agreements si spingono non infrequentemente fino all’elusione del potere di ratifica dei trattati internazionali in capo al Congresso (v. Edye v. Robertson); la disposizione delle forze armate è pressoché di totale discrezionalità del Presidente; l’executive privilege garantisce la riservatezza delle comunicazioni del Presidente nell’esercizio delle proprie funzioni; ancora, il XXV emendamento della Costituzione statunitense ed il Presidential Election Act del 1947 disciplinano diffusamente la linea di successione alla prima carica federale e la possibilità di nomina del Vicepresidente in caso di sua vacanza, come accaduto nel 1973 e nel 1974 rispettivamente per Gerald Ford e Nelson Rockfeller.

3. Pro e contro del sistema elettorale americano – a cura di Lorena Corti e Ludovica Davoli

Ancora 3

Come precedentemente accennato, il sistema elettorale americano trae la propria struttura organizzativa dalla normativa costituzionale. In particolare, i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, durante la concreta stesura della carta costituzionale, rifletterono a lungo sulle regole più adeguate da selezionare affinché l’elezione del Presidente fosse compatibile con la struttura complessa della nuova nazione: essi decisero da ultimo di optare per un sistema diviso in due fasi, al fine di garantire una certa rilevanza anche agli Stati meno estesi o meno densamente popolati. 
 

Richiamando quanto  già illustrato, ricordiamo che la prima fase viene gestita individualmente dai singoli Stati, il che porta ad un maggiore controllo sulla regolarità del processo e ad una semplificazione generale dell’organizzazione; infatti, nel caso in cui si verificassero pratiche elettorali scorrette o brogli, il nuovo conteggio dei voti avrà luogo all’interno dei singoli Stati e non già a livello nazionale. Questo tipo di controllo sugli esiti del voto può riguardare tanto gli Stati più estesi quanto quelli meno estesi, poiché entrambi hanno un peso specifico rilevantissimo sul risultato elettorale finale. 
 

Per garantire che i federate States più estesi della nazione controllassero, a causa del gran numero di cittadini votanti, l’intera elezione del Presidente, l’organizzazione  che è stata ideata è tale da incentivare il voto di tutta la popolazione - e le campagne elettorali sono programmate al fine di raggiungere efficacemente tutto il territorio nazionale. Un allontanamento da questo sistema incoraggerebbe la formazione di partiti e candidati minori, grazie ai quali al vincitore occorrerebbe una sempre più esigua maggioranza relativa, possibilmente concentrata in una determinata area. 
 

In buona sostanza, l’argomento condiviso dai sostenitori dell’attuale sistema elettorale è che esso stimola l’unità della nazione, dando allo stesso tempo una ragionevole importanza al voto di ciascuno dei suoi cittadini. 
Nonostante tale considerazione sia popolare tra i difensori del sistema, occorre anche  evidenziare come esso presenti alcune macchinose e considerevoli criticità. 

 

In particolare, in tempi assai recenti alcuni studiosi hanno ritenuto che l’espressione della volontà popolare attraverso il voto dei grandi elettori abbia piuttosto portato ad una realtà opposta. In 48 Stati su 50, infatti, la preferenza dei grandi elettori viene assegnata integralmente al candidato che conquista più voti all’interno dello Stato, anche se lo scarto tra concorrenti è minimale. Di conseguenza, gli elettori che non si riconoscono nella maggioranza a livello statale risultano irrilevanti. Da ciò ne consegue che, piuttosto che valorizzare le singole preferenze, l’intero impianto sembra aver rinnegato la natura determinante del singolo elettore e del  voto da lui espresso. 
 

Le conseguenze dei meccanismi del sistema elettorale risultano ancor più aspre a livello nazionale: considerando il quadro nel suo complesso, in talune occasioni risulterà evidente come l’elezione del Presidente rischi di non rispecchiare l’effettiva volontà dei cittadini. Nel 2016, ad esempio, la candidata Hillary Clinton ha vinto il popular vote con più di un milione di voti, ma ha comunque perso le elezioni. 
 

La ragione alla base di ciò si rinviene nel fatto che, storicamente, alcuni Stati hanno dimostrato un’ anima di costante stampo repubblicano o democratico; pertanto, i candidati alla presidenza indirizzano importanti energie nella realizzazione della campagna elettorale ai cosiddetti “swing states”, la cui oscillazione tra partito democratico e repubblicano determina la maggioranza nel Collegio dei grandi elettori - e dunque il seggio presidenziale. Anche al di là del contesto elettorale, non è da sottovalutare l’importanza degli “swing states” e del loro colore politico, in quanto il cambiamento dello stesso è spesso sintomatico di mutamenti di tendenza nella coscienza sociale dei cittadini di un determinato Stato. 

4. Problematiche riscontrate nel corso delle elezioni 2020 – a cura di Emanuele Della Santa

Ancora 4

Nella corsa alla Casa Bianca è stato determinante il voto per posta, servizio di cui hanno usufruito oltre 100 milioni di americani in 34 Stati. Tale strumento è stato ideato per consentire il voto anche ai cittadini impossibilitati a recarsi fisicamente al seggio loro assegnato.
 

Il mail voting è diventato nel tempo uno dei principali argomenti di dibattito. Difatti, nel corso delle ultime elezioni, l’ex presidente Trump ha sostenuto l’esistenza di possibili brogli proprio dovuti al voto per posta. Al contrario, di filosofia nettamente opposta era stato il neopresidente Joe Biden, il quale aveva invitato gli elettori a fare un uso maggiore di tale strumento per evitare affollamento ai seggi e contenere l’epidemia da Covid-19. 
 

Analizzando più accuratamente il voto per posta utilizzato durante il periodo elettorale, il Washington Post e il New York Times hanno riferito che circa 300.000 schede non sono state scansionate, cioè non sono state marcate come inviate agli uffici elettorali che avrebbero dovuto scrutinarle. A tal riguardo, una delle misure che ha adottato l’USPS, il servizio postale degli Stati Uniti, era stata quella di far consegnare direttamente a mano dai propri operatori agli uffici elettorali le schede di voto. Tale dinamica ha portato ad una problematica relativa al momento del voto: in particolare, il partito repubblicano pretendeva che le schede spedite prima del termine dell’Election Day, ma giunte alla sede elettorale in data successiva, non venissero conteggiate; di idea opposte erano invece i democratici. Dunque, il partito repubblicano, per far valere le proprie ragioni, ha rivolto le sue istanze alla Corte Suprema dello Stato ed essa le ha parzialmente accolte. Nello specifico, il giudice associato Samuel A. Aito ha imposto, tramite un ordine alle commissioni dello Stato della Pennsylvania, di separare i voti arrivati via posta dopo le 20.00 dello scorso 3 novembre, senza cessare il conteggio. Ancora, il segretario di Stato Kathy Boockvar ha ordinato alle contee di segregare le schede ricevute dopo le 20.00 dell’Election Day, per le contestazioni legali in corso. 
 

Tuttavia, le controversie non sono finite qui. Infatti, al termine delle elezioni l’ex presidente Trump si è mostrato pronto ad instaurare una vera e propria una battaglia legale contro l’avversario Biden, accusandolo di aver gioito di un successo fasullo ed inconsistente, al momento della dichiarazione della sua vittoria. 
 

Da ultimo, per fare un po’ di chiarezza con riguardo al voto postale, si deve tenere a mente che tra le principali forme di voto postale si ha l’absentee ballot e il mail-in ballot.
 

In caso di absentee ballot, è previsto che la scheda elettorale debba essere richiesta; esso è usato in 34 stati, quasi sempre senza fornire una motivazione. Negli altri 16 stati è presente una forma simile per anziani, malati, disabili e carcerati con diritto di voto. 
 

In caso, invece, di mail in ballot, la scheda elettorale viene spedita a tutti gli aventi diritto, senza richiesta. In qualsiasi caso gli elettori possono consegnarla a mano o spedirla. 
 

Al momento circa la metà dei 50 stati consente il “mail voting” per tutti gli elettori che ne facciano richiesta, indipendentemente dal sussistere di condizioni specifiche come appunto l’età. In cinque Stati, Utah, Hawaii, Colorado, Oregon, Washington il voto per posta è addirittura il principale mentre California, Nebraska e North Dakota mettono questa possibilità in mano alle singole contee. 

5. Joe Biden: un focus sul mandato del presidente eletto – a cura di Valeria Sgobbi

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Il neoeletto presidente Biden dovrà affrontare importanti sfide nel corso del proprio mandato presidenziale, così come la sua agenda politica sembra dimostrare. 
 

I principali punti del programma politico del presidente democratico sono: gestione prioritaria dell’emergenza Covid-19, rafforzamento dei legami internazionali con l’Unione Europea e redistribuzione del carico tributario e finanziamento di nuove spese pubbliche. A ciò vanno aggiunti gli obiettivi di innalzamento del salario minimo, la gratuità del college per famiglie con reddito al di sotto di una soglia minima (centoventicinquemila dollari annui), l’allargamento del bacino di utenza dell’Obamacare ed il ritrovamento di un importante spazio per il dibattito sulle problematiche legate all’immigrazione. Infine, va menzionata l’importante promessa ripetuta da Biden in diversi comizi elettorali: quella di dare ascolto alla voce del pianeta e alla tematica “green”, attraverso il rilancio del settore energetico, al fine di contenere i dannosi effetti climatici del surriscaldamento globale. 
 

Quelli di Biden sembrano senz’altro progetti ambiziosi, che segnano una netta inversione di tendenza rispetto all’orientamento politico della precedente presidenza Trump. Tuttavia, non ogni eredità dell’operato dell’ex presidente sarà demolita: ad esempio, continueranno (e, secondo molti, resteranno forti) le contrapposizioni tra Stati Uniti e Cina. Tale previsione è stata condivisa da gran parte del Congresso e dall’opinione pubblica, sebbene Biden, maggiormente incline ed aperto ad un bilanciato dialogo internazionale e alla collaborazione con l’Unione Europea, coordinerà le proprie politiche con gli Stati europei, in virtù di una chiara separazione tra Usa e Cina. 
 

Inoltre, risulta improbabile che gli effetti della politica protezionista degli ultimi quattro anni vengano aboliti in toto durante la nuova presidenza democratica: Trump è stato sì sconfitto alle elezioni, ma si è dimostrato un avversario tenace, una figura dirompente nel panorama politico globale, capace di lasciare  gli americani (ed il mondo intero) col fiato sospeso ad ogni singolo passo; l’ex presidente repubblicano ha impersonato una visione del mondo non priva di criticità e che difficilmente lascia indifferenti, penetrando trasversalmente tra le generazioni, culture ed etnie più diverse.
 

In questi mesi, gli occhi dei cittadini americani e del mondo saranno puntati su una problematica la cui gestione si è rivelata particolarmente complessa e, per certi versi, dolorosa: l’ efficace contenimento della pandemia da Covid-19 si rende ormai improrogabile e su un binario parallelo (ma strettamente connesso ad esso) vi è la necessità di rilanciare l’economia (essendosi verificata una forte impennata del debito federale, che si attesta attorno al 101%, un livello mai visto dai tempi del secondo conflitto mondiale). Naturalmente gli Stati dell’Europa potranno contare su un interlocutore alla Casa Bianca disposto ad un confronto concreto e continuo, sebbene ciò non debba essere frainteso con una presenza statunitense attiva sul fronte europeo. L’Europa dovrà infatti rafforzare la propria autonomia, potendo così confrontarsi da pari con lo stato simbolo della democrazia, a cui le maggiori democrazie occidentali maggiormente consapevoli e mature guardano con attenzione. È attraverso il rafforzamento della propria identità europea e la propria autonomia, condizione preliminare per ricucire nuovamente una stretta cooperazione transatlantica, che si potrà interloquire sul piano comune per rilanciare la multilateralità d’azione.

6. Bibliografia e Sitografia

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