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UNICORNS
Cos'è il venture capital e quando funziona in grande

Articolo a cura di Lucrezia Villa 

Il settore delle start-up sta attraversando in Italia una fase di grande vivacità: l’aumento del numero complessivo di start-up attive, del loro fatturato, nonché la diversificazione dei rispettivi settori di attività, testimoniano, infatti, come il fenomeno stia provando progressivamente ad avvicinarsi ai riferimenti stranieri, in particolar modo quelli europei. Inoltre, la crescita di alcune di queste aziende alle volte procede talmente bene da permettergli di raggiungere lo status di “unicorno”, unendosi a quel prestigioso club le cui probabilità di accesso si aggirano intorno al 0.00006%.

Ma cosa si intende esattamente per “unicorno”? La risposta parte dal capire che cosa è una start-up e come se ne promuovono lo sviluppo e la crescita.

1. Start-up e venture capital, tra nozione e fasi di vita del fenomeno

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Il termine start-up si riferisce a una società non quotata, ad alto potenziale di sviluppo, nelle prime fasi della propria attività. Queste realtà partono generalmente con costi elevati e ricavi limitati, motivo per il quale gli imprenditori cercano capitale e altre forme di finanziamento da diverse fonti, quali i venture capitalists.

A volte l’idea è un vero flash di intuizione, ma più spesso la vita della start-up inizia con lo sviluppo approfondito di un progetto, nell’ottica di fornire una soluzione a un problema interessante oppure di proporre un servizio innovativo. La primissima fase, in cui l’idea iniziale dello start-upper inizia a prendere i contorni di un progetto organizzato, si identifica come bootstrap. Questo primo momento di avvio è poi seguito dalla fase c.d. seed, durante la quale lo sforzo è indirizzato a dare all’idea una struttura solida e a preparare il progetto al suo ingresso nel mercato di riferimento. L’obiettivo è quello di affinare il modello di business, in modo tale da renderlo sostenibile e in grado di generare profitto. Ed è sempre in questa fase che intervengono le prime fonti di finanziamento, quali business angels e acceleratori di start-up, rispettivamente imprenditori e organizzazioni che aiutano le aziende a far partire il proprio progetto, investendo denaro o avviando veri e propri programmi di affiancamento e supporto. Un’altra fonte di finanziamento tipica di questa fase è il crowdfunding, che consente di raccogliere capitale in maniera diffusa attraverso piattaforme online

Successivamente al suo ingresso nel mercato, si considera completato lo stadio c.d. early stage del ciclo di vita di una start-up e l’azienda è pronta ad affrontare le due successive fasi: growth ed exit

La fase c.d. growth corrisponde al momento in cui la start-up prende la forma di una vera e propria società. Sviluppata l’idea e identificata una buona combinazione prodotto-mercato, occorre lavorare per permettere al progetto di scalare e crescere. È il momento di spingere sull’acceleratore e per farlo c’è bisogno di fondi: i finanziamenti in questo stadio provengono tipicamente da particolari fondi di private equity, precisamente di venture capital. Per questo motivo si parla di venture-funded growth.

Il venture capital identifica, infatti, l’attività di investimento nel capitale di rischio delle start-up, effettuata prevalentemente da investitori istituzionali e che hanno l’obiettivo di ottenere un consistente guadagno in conto capitale dalla vendita della partecipazione acquisita o dalla successiva quotazione in borsa della società. Il finanziamento avviene attraverso diversi round di investimento in equity, tradizionalmente identificati con le lettere dell’alfabeto (A, B, C e così via) e caratterizzati da rischio di fallimento decrescente. Tuttalpiù, l’attività dei venture capitalists non comporta unicamente l’apporto di capitale di rischio, ma può riguardare anche tutta una serie di attività connesse e strumentali alla realizzazione dell’idea imprenditoriale. Fondamentale può essere l’apporto professionale dell’investitore stesso, che può partecipare alle decisioni strategiche della società apportando le proprie conoscenze ed esperienze professionali, lasciando invece all’imprenditore e al management la gestione operativa. Lo stesso investitore istituzionale può essere, inoltre, una figura di prestigio del mondo degli affari, portando alla start-up notorietà e manifestazioni di fiducia da parte del mercato. 

Da una start-up finanziata con venture capital ci si attende il raggiungimento di determinati obiettivi di periodo, detti milestones. La società affronta, quindi, una delicata transizione: da realtà nella quale si intravede del potenziale di crescita a società dalla quale ci si attende il raggiungimento di traguardi prestabiliti, promessi agli investitori. Tuttalpiù, la fase di crescita di una start-up comporta quasi sempre degli imprevisti, e il successo o il fallimento della società dipendono dalla capacità di chi ne tiene ‘le redini’ di rispondere alle situazioni di stallo e crisi. Se l’investimento ha successo, l’uscita del venture capitalist si ha quando la società avrà raggiunto lo sviluppo previsto; invece, in caso di insuccesso, l’investitore abbandonerà il progetto quando si sarà reso conto che non è più possibile superare una situazione patologica.

Concentrandoci sul primo, auspicabile risultato, ci introduciamo alla fase c.d. exit.

L’exit determina il passaggio dallo stato di start-up a quello di società matura: più del 90% delle start-up non raggiunge mai questa fase, per quanto prema sottolineare che il tempo che occorre per avvicinarsi a questo stadio dipende dal mercato, dalla start-up stessa, nonché dal livello di complessità tecnologica del progetto. Questa fase coincide con l’uscita degli investitori istituzionali: il disinvestimento può avvenire con (i) la quotazione in borsa dei titoli della società partecipata, (ii) il riacquisto della partecipazione da parte del gruppo imprenditoriale originario, (iii) la vendita a nuovi soci o nuovi investitori istituzionali, che entrando in società in una fase successiva a quella di start-up rientrano nel campo del private equity.

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2. Unicorni fantastici (cosa sono) e dove trovarli

Fondare una società unicorno è il sogno di qualsiasi imprenditore, ma sono pochissime le realtà che effettivamente raggiungono questo traguardo. Nella sua accezione più economica, il termine “unicorno” è associato a quelle start-up di proprietà privata che abbiano raggiunto una valutazione di mercato superiore a un miliardo di dollari, secondo la dicitura coniata dalla venture capitalist statunitense Aileen Lee nel 2013.

Si può affermare che ogni grande ondata tecnologica dia vita a società destinate a diventare unicorno. Parlando a livello generazionale, si potrebbe dire che i primi fenomeni risalgano agli Anni ‘90, decennio dal quale sono emerse anche creature ancora più ‘mitologiche’: i super-unicorni, vale a dire start-up con valutazione da almeno cento miliardi di dollari (seconda evoluzione dei c.d. decacorni, valutati oltre i dieci miliardi), quali Google e in seguito Facebook.

Ai tempi dell’introduzione del termine “unicorno” esistevano appena quattordici realtà con queste caratteristiche. Recentemente si è stimata l’esistenza di oltre mille unicorni: in un’indagine risalente a giugno 2022, CB Insights ne ha identificati esattamente 1.170. Scorrendo la lista per valutazione, troviamo al primo posto Bytedance, compagnia cinese sviluppatrice del noto social network TikTok, seguita in seconda posizione da SpaceX, società aerospaziale statunitense tra le creature di Elon Musk, e al terzo posto da SHEIN, prima rappresentante degli e-commerce, che raddoppia il numero delle compagnie cinesi a podio. 

Non esiste una formula standard che identifichi un progetto destinato a diventare unicorno, in quanto il successo su larga scala di una start-up dipende da molti fattori, alcuni dei quali fuori dal controllo degli imprenditori. Ciò nonostante, guardando all’Europa e scavando nei dati e nella storia aziendale degli unicorni europei, possono essere messi in luce almeno tre elementi che aumentano la probabilità di arrivare al fatidico miliardo di valutazione sul mercato. Il primo elemento è non avere fretta: mediamente ci vogliono tra i sette e i dieci anni per diventare unicorni. Il secondo è ragionare in ottica internazionale: nove unicorni su dieci, infatti, operano su più mercati contemporaneamente. Il terzo, infine, riguarda i fondatori: in media i founder di unicorni sono giovani, ma hanno quasi sempre già avuto esperienze o come fondatori di altre start-up (60%) o come senior manager in altre aziende (40%). Anche la formazione universitaria incide sulla probabilità di fondare qualcosa che potrebbe trasformarsi, un giorno, in unicorno, tanto che è stata stilata una classifica europea delle ‘unicorn universities’, che vede ai primi posti l’INSEAD di Parigi, l’Università di Cambridge e l’Università di Stoccolma.

3. Unicorni made in Italy e VC in Italia

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L’Europa conta più di duecento unicorni, di cui quasi la metà del settore fintech. La maggior parte dei fenomeni nel vecchio continente nasce nel Regno Unito, come Revolut o Sumup, ma rientrano nell’esclusivo unicorn club anche alcune sporadiche esperienze italiane.

Per quanto l’Italia non sia (ancora) un ambiente massimamente favorevole alle start-up, in buona parte a causa dell’ancora diffusa diffidenza negli investimenti a sostegno delle nuove aziende innovative, dal 2021 ad oggi si sono registrati segnali positivi. Infatti, al secondo semestre del 2022, il nostro Paese vanta all’attivo due aziende valutate più di un miliardo di dollari: Scalapay e, soprattutto, Satispay, fintech con sede a Milano, ultimo ingresso nel club grazie a un round di investimento da 320 milioni di euro datato settembre 2022. Le due realtà raccolgono finalmente l’eredità di altre start-up, fondate da italiani ma cresciute all’estero, come Yoox e Depop. 

Ad ogni modo, il confronto con il resto d’Europa rimane amaro: il Regno Unito conta circa 58 unicorni, la Germania 39, la Francia 33, la Spagna 12 e la Svezia 11.

Quindi, nonostante gli sviluppi in positivo, cosa servirebbe al nostro paese per diventare finalmente terra fertile per gli unicorni e, in generale, per le start-up? Secondo un report del Club degli Investitori bisognerebbe intervenire in almeno tre direzioni: (i) migliorare la collaborazione e l’integrazione tra i fondi di venture capital nazionali, perché oggi in Italia si contano più di 200 operatori, troppi per le dimensioni dell’ecosistema nazionale; (ii) affinare il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti, alla quale è stato chiesto di istituire un fondo d’investimento da 1 miliardo, che possa intervenire con tagli da 50 milioni, per co-investire insieme ai fondi privati; da ultimo, (iii) rinnovare il quadro normativo sulle start-up, ormai vecchio di dieci anni, il cui rinnovamento è necessario per arginare lo spostamento all’estero delle nuove tech companies. “Lavorando in questa direzione potremmo avere 15 nuovi unicorni nei prossimi 5 anni”. Di modificare la legge sulle start-up dovrà occuparsi, auguratamente, il nuovo Governo: d’altronde, la normativa attuale risale al Governo Monti, quando fu approvata con Corrado Passera al Ministero dello Sviluppo Economico e, negli ultimi anni, certamente il mondo delle start-up non è rimasto fermo, ma ha continuato a crescere. Sempre secondo il Club degli Investitori, questa volta integrato dalla ricerca “European Unicorn & Soonicorn” di i5invest, fino a sedici aziende fondate da italiani potrebbero diventare unicorni nei prossimi anni. Tra le promesse azzurre ci sono nomi come Moneyfarm, Soldo, Credimi, Roboze, Casavo ed Everli. 

La speranza è, quindi, che il settore delle start-up e del venture capital in Italia sia in grado di ottenere presto gli strumenti di cui necessita per perseguire a pieno il proprio potenziale, consapevole delle sfide che il recupero post-pandemia, la crisi scaturita dal confitto Russia-Ucraina e gli obiettivi di sostenibilità impongono su presente e prossimo futuro.

Bibliografia and sitografia

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