top of page
A&LMOST trasparente.png

LE VOCI DEI POPOLI OPPRESSI

I fini originari erano la libertà e la democrazia, perseguiti anche al costo di guerre civili. 

Articolo a cura di Emanuele Della Santa e Saâd Tarybqy

Revisione Martina Chiappa, Francesco Neri

Ancora 1

1. Si leva la voce del popolo dalla Tunisia, l’origine della rivoluzione

Il politologo Marc Lynch usò l’espressione “primavera araba” all’interno di un articolo sulla rivista americana Foreign del 6 gennaio 2011, ricorrendo all’immaginario proprio sia della “primavera dei popoli” del 1848, sia dei moti di Praga del 1968, quando lo studente Jan Palach si diede fuoco. Il 17 dicembre 2010 Mohammed Bouazizi, venditore ambulante di Sidi Bouzid in Tunisia, decise di incendiarsi dopo il sequestro delle sue merci ad opera della polizia. Quest’atto fu prodromico dello scatenarsi di un’ondata di proteste che dilagarono in tutto il Paese e in poche settimane venne rovesciato il regime del presidente Zine el Abidine Ben Ali. Le manifestazioni si diffusero in altre città anche tramite i social network con lo slogan “il popolo vuole la caduta del regime”, oltrepassando così i confini tunisini. Furono costretti alla fuga Hosni Mubarak, Presidente egiziano, Ali Abdullah Saleh, Presidente dello Yemen, mentre Gheddafi venne ucciso in Libia. La notizia del gesto sopra citato, in effetti, si diffuse tramite Twitter, social sul quale si esprimeva il malcontento popolare, in particolare quello dei giovani che chiedevano pane, libertà e dignità. Il presidente tunisino appena dimessosi, al governo dal 1987 dopo essere succeduto ad Habib Bourguiba, era uno dei più moderati; tuttavia, il suo Paese nel 2011 appariva lontano dallo standard democratico occidentale, poiché vi erano un alto tasso di disoccupazione ed una grave crisi economica. Le elezioni del 2012 in Tunisia, vinte dal partito Ennahda, furono seguite da attacchi da parte di gruppi salafiti a musicisti e artisti. Nel 2013, invece, avvennero gli omicidi politici dei leader di opposizione, Choukri Belaidi e Mohamed Brahmi, che portarono di nuovo i manifestanti in piazza. Soltanto nel 2014 si approvò la costituzione e si superò la crisi politica, l’anno successivo il Quartetto per il dialogo nazionale tunisino venne insignito del Premio Nobel per la Pace. Tuttavia, nel 2015 il Paese fu scosso da forti attacchi terroristici ad opera del gruppo Stato islamico al Museo del Bardo nella capitale e a Sousse.

2. L’ondata di proteste 

Ancora 2

Dal 2010 nuovi focolai rivoluzionari si sono accesi in Algeria, in Marocco, in Arabia Saudita e in Bahrein, e, seppure in minima misura, in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti, in Iraq, in Libano e nella Giordania retta da Re Abdallah. 

All’origine delle proteste in piazza Tahir al Cairo il 25 gennaio 2011 vi erano le richieste di riforme per contrastare la disoccupazione, la povertà, la corruzione, la fame, l’assenza di libertà individuali e la violazione di diritti umani. Questi moti spinsero il presidente Hosni Mubarak a dimettersi. Il Consiglio supremo delle forze armate, lo Scaf, cominciò a dettare legge nel regime di transizione, presentandosi quale forza controrivoluzionaria e macchiandosi di gravi massacri di manifestanti a Maspero, Mohamed Mahmoud e Port Said. Seguirono poi le elezioni vinte da Mohammed Morsi, membro della Fratellanza Musulmana. Il 30 giugno 2013 milioni di egiziani, spinti dal movimento Tamarrod, si riversarono in strada chiedendo la sua destituzione, agevolando così il colpo di Stato ad opera di Al Sisi. Quest’ultimo attuò una violenta repressione vietando le proteste, perseguendo gli oppositori politici, silenziando la società civile. Si stimano 60 mila prigionieri e 2700 persone sparite in quel periodo. 

3. Il violento conflitto siriano 

Ancora 3

In Siria le proteste, esplose nel marzo 2011, sfociarono in un sanguinoso conflitto. Più volte il governo di Damasco è stato accusato di aver fatto uso di armi chimiche. A marzo di quello stesso anno si diffusero diverse manifestazioni nella capitale e in tutto il Paese; venne data vita a un movimento di opposizione civile, culla della rivoluzione siriana, la cui unità fu però rotta dalla guerra civile che ha finora causato centinaia di migliaia di morti, detenuti e persone scomparse. L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha stimato 585mila persone uccise dall’inizio del conflitto e milioni di migranti. Il movimento doveva combattere una battaglia su due fronti: il primo contro Bashar Al Assad, supportato dall’Iran e dalla Russia ufficialmente dal 2015; il secondo contro i jihadisti, rafforzati dal 2012 da finanziamenti stranieri. All’apice delle violenze lo Stato islamico occupò tra il 2014 e il 2017 un terzo del territorio siriano, proclamando Raqqa propria capitale. I Curdi siriani, con l’ausilio della coalizione statunitense, sconfissero l’Is, mentre Assad riconduceva sotto il proprio controllo tutte le province ad eccezione di Idilib (ora sotto il protettorato dalla Turchia). La Siria, frammentata e in conflitto, sembra essere lontana dall’autodeterminazione. La guerra ha lasciato nel caos la regione, che ancor prima non si era ripresa dall’invasione dell’Iraq ad opera degli Stati Uniti nel 2003.

Ancora 4

 4. Le rivolte e le loro conseguenze: profili di rilfessone  

Libia, Siria e Yemen sono stati a lungo Paesi in guerra, ma anche nel resto della regione la situazione è fonte di non poche preoccupazioni. In particolare, la situazione socio-economica rimane caratterizzata dalle stesse criticità che ispirarono le rivendicazioni delle proteste del 2011. Se da un lato si è riconosciuta prontamente l’urgenza di garantire maggiore giustizia sociale e di lottare in modo più efficace contro la povertà, dall’altro le risposte offerte a livello sia nazionale che internazionale non hanno fatto che ricalcare l’agenda seguita negli ultimi trent’anni, peraltro alla base di diversi squilibri che numerosi esperti ritengono concause di quelle stesse proteste.

 

La cosiddetta “Primavera araba” colse molti impreparati. Un’analisi dei dati macroeconomici solitamente presi in considerazione (su tutti, la crescita del Pil e il tasso di inflazione) mostrava infatti apprezzabili miglioramenti per il secondo decennio del secolo rispetto ai precedenti vent’anni. Tuttavia, l’intera regione risente di un serissimo problema in termini di disponibilità di dati, soprattutto per quanto riguarda indicatori sociali cruciali quali il tasso di povertà, l’indice di disuguaglianza e il tasso di disoccupazione. Infine, altri due elementi sono stati a lungo ignorati dall’analisi economica sulla regione: la fortissima dipendenza dalle importazioni dall’estero e i tassi di investimento relativamente modesti, soprattutto se comparati con altre zone del mondo come il Sud-Est Asiatico.

Medio Oriente e Nord Africa, in particolare a partire dagli anni Settanta, hanno economie poco produttive, con forti emorragie di flussi finanziari e investimenti tendenzialmente concentrati nei settori dei servizi e delle costruzioni, realtà che li rende degli importatori netti di beni dall’estero (ossia senza che ai flussi di importazione corrispondano flussi esportativi di almeno pari valore).

 

Si tratta di economie incapaci di offrire opportunità di lavoro (per non parlare delle condizioni salariali) e quindi di inclusione sociale ai propri cittadini, giovani e meno giovani.  Le problematiche appena illustrate nel decennio passato furono prese in considerazione in modo piuttosto superficiale sia dai decisori politici nazionali – spesso impegnati nella gestione dei cambiamenti dello scenario istituzionale, come in Egitto e in Tunisia, o nel mantenimento della stabilità – sia da organizzazioni e donatori internazionali. Importanti somme furono comunque stanziate sia per iniziative di cooperazione bilaterale sia all’interno della Deauville Partnership with Arab Countries in Transition creata nel maggio 2011 da G8, UE, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Turchia e Qatar a sostegno di Egitto, Giordania, Libia, Marocco e Tunisia, che hanno di fatto finanziato iniziative volte alla promozione del settore privato con misure di sostegno alle piccole e medie imprese e all’imprenditoria giovanile, ciò con progetti infrastrutturali e programmi per il consolidamento dei budget statali e di assistenza tecnica al settore pubblico per il miglioramento della governance, a sua volta funzionale alla creazione di condizioni attrattive per gli investitori, spesso stranieri (è il caso per esempio della Tunisia con la promulgazione del nuovo Codice sugli Investimenti e di altri testi di legge in materia).  Per quanto riguarda gli investimenti nelle infrastrutture, Egitto e Marocco si distinguono per i loro ambiziosi piani.

 

Quest’ultimo in particolare, marginalmente toccato dalle proteste nel 2011, ha da anni adottato un’aggressiva politica di attrazione di capitali stranieri, sia per investimenti esteri in attività manifatturiere (si pensi al gruppo automobilistico Renault a Tangeri), sia per progetti infrastrutturali, in particolare nel settore dell’energia. Le sofferenze sociali e i problemi di produttività che impediscono la generazione di impieghi a condizioni dignitose e in numero soddisfacente rimangono tuttavia marginalizzate dal policy making nazionale e internazionale. Innanzitutto, sebbene questi mega-progetti infrastrutturali possano contribuire a un rafforzamento del tessuto economico dei paesi della regione, difficilmente potranno da soli preparare la strada allo sviluppo su larga scala di settori produttivi e, trattandosi di attività ad alta intensità di capitale, il loro potenziale in termini di creazione di posti di lavoro rimane piuttosto contenuto.

 

Inoltre, le politiche volte alla promozione del settore privato continuano a ignorare che le economie di Medio Oriente e Nord Africa sono già in economie capitaliste e che, nonostante corruzione e clientelismo siano problemi determinanti, il punto chiave dello sviluppo della regione passa piuttosto per i settori in cui il privato dovrebbe operare e per i rapporti che esso dovrebbe intrattenere con il lavoro salariato al fine di garantire una crescita cosiddetta “inclusiva”. Mentre ormai la Primavera araba appartiene al passato, scalzata da altre priorità come la sicurezza e la lotta all’Isis o i programmi di aiuto umanitario ai rifugiati siriani in Giordania e Libano, ciò su cui si dovrebbe trovare il tempo di riflettere è il modello di sviluppo della regione, tra dipendenza dall’estero e attività economiche che non rispondono ai bisogni sociali delle popolazioni coinvolte. Da qui è necessario ripartire, poiché viceversa il 2011 sarà stato solo la breve battuta d’arresto di un percorso politico ed economico che negli ultimi decenni ha emarginato ed escluso ampie fasce della popolazione della regione.  

Ancora 5

5. A dieci anni dall’inizio: l’eco della Primavera araba nel 2021 e la “seconda Primavera”

Nonostante i giovani arabi abbiano attaccato cittadelle istituzionali apparentemente impenetrabili, come piazza Tahrir al Cairo, l’esito delle proteste è stato un fallimento. Infatti, è emersa l’incapacità di far crescere una cittadinanza politicamente consapevole e impegnata per una ridistribuzione equa delle ricchezze, accanto al ritorno dei regimi autoritari. Nel 2019 giunge la “seconda primavera araba”, in Algeria la piazza costringe alla resa Bouteflika, termina in Sudan l’era di Omar al -Bashir, In Iraq ci sono numerose proteste contro disoccupazione, corruzione e mancanza di accesso ai servizi essenziali. A dieci anni dalle rivolte, la Siria è caduta nella guerra civile più nefasta del millennio, l’Egitto è sotto la dittatura di Abdel Fattah al Sisi e la Tunisia vive una complessa crisi economica. Oggi la Tunisia è però una democrazia, ha superato gli attacchi terroristici e ha evitato il ritorno di un governo autoritario, come è accaduto invece in Egitto, in Siria, nello Yemen e in Libia. Tuttavia, i Tunisini sono disillusi, spesso si uniscono ai gruppi di jihadisti e molti migrano in Italia. Inoltre, la crescita economica si è dimezzata, mentre i giovani costituiscono l’85% dei disoccupati. Le rivolte non hanno portato alle riforme auspicate e i governi più recenti continuano a non tener conto delle richieste che muovono dal basso. Le difficoltà socioeconomiche che hanno portato alle proteste permangono e si intensificano, estendendosi a tutta la regione. Quanto avvenuto dal 2010 permane nelle coscienze di tutte le popolazioni, i giovani sono consapevoli sia del passato che di ciò che accade al di fuori del Medio Oriente. L’obbligata transizione generazionale richiede prudenza da parte degli attori internazionali che devono perseguire le proprie politiche senza alimentare le rivalità, ma favorendo la coesione.

6. Bibliografia e Sitografia

Dieci anni fa, la Primavera araba. Dai giovani in piazza alle rivoluzioni incompiute - Photogallery – Rai News 21/02/2021

 

Cosa resta della rivoluzione di piazza Tahrir - Pierre Haski - Internazionale , 21/02/2021

 

Le voci delle primavere arabe dieci anni dopo - Marta Bellingreri - Internazionale , 21/02/2020

 

La Primavera araba, 10 anni dopo. Una stagione di crolli, senza rinascite | L'HuffPost (huffingtonpost.it) 22/02/2021

 

https://aosta.unicusano.it/studiare-a-aosta/primavere-arabe-storia-definizione/ 25/02/2021

 

https://www.ispionline.it/it/tag/primavera-araba 25/02/2021

 

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/primavera-araba-reloaded-ecco-perche-il-vecchio-medio-or iente-non-tornera-piu-23995 25/02/2021

 

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/giovani-e-societa-civile-la-primavera-araba-e-viva-la-primavera-araba-e-morta-14606 25/02/2021

bottom of page